Musicisti che suonano leggendo e musicisti che suonano ascoltando: aporia formativa o questione metodologica? Verso una rifondazione della conoscenza e della formazione musicale generale e specialistica

by Mario Musumeci

Musica colta e cultura musicale

Una buona parte dei musicisti militanti, quelli che innanzitutto “suonano” e, se docenti, “devono far suonare” i propri studenti non vuole proprio affrontare una questione fondamentale per il destino della musica colta e più spesso neppure è in grado di capirla – per sola distrazione o per una inadeguata formazione tanto culturale che musicale? o, al peggio, per quell’incompetenza che si presenta proficuamente ben compensata dallo spudorato narcisismo richiesto dallo star system artistico? Che la missione pedagogica del vero musicista professionista è innanzitutto “farsi ascoltare”, e non semplicemente “farsi udire”: predisponendo al meglio le pur sacrosante occasioni dell’attività artistica in quanto attività performativa e assieme ermeneutica. Un ascoltare (ed un ascoltarsi) maturato e coinvolto nell’integrazione ad un epidermico e propedeutico “sentire”.

Ed è solo una consistente conseguenza di tale assunto il fatto che la musica colta della tradizione occidentale da un canto sia ancora definita inappropriatamente come “classica” – fino al paradosso di musicisti compositori viventi classificati come tali se non addirittura con la ridicola definizione di “compositori di musica contemporanea” (Bach, Mozart, Brahms … da viventi non erano forse “contemporanei”?) – o addirittura come “seria” – e sarebbero dunque “non seri” gli altri generi dell’odierna società dei consumi, più o meno rigorosamente classificati: pop, rock, jazz, folk, etc.; e che, dall’altro, nei suoi confronti si perpetui la convinzione che la si possa affrontare senza la profonda cultura e capacità divulgativa che essa stessa richiede oggi al performer. E appunto in quanto “musica colta”, e cioè musica elaborata in storica distanza dalle odierne pratiche d’uso e spesso strutturalmente complessa anche perché all’origine riferita a vere e proprie élites intellettuali di fruitori, oltreché di produttori.

La definizione stessa di cultura musicale oscilla ancora pericolosamente tra gli estremi dello specialismo “corporativo”, definito in prevalenza quanto a tecniche d’uso, e inopportunamente segregate tra attività esecutive e compositive, e l’esercizio denotativo e connotativo, banalizzato spesso nei termini di una verbalizzazione più o meno “spettegolante” del fatto artistico musicale. E certamente più di frequente poco formativa e appropriata allo stesso agire musicale. Tanto da giustificare poi lo sbrigativo ma accomunante alibi del “bando alle chiacchiere, facciamo parlare la musica”. Sì ma per dire cosa? Per esprimere cosa? Per servire a cosa? Che ovviamente sia specifico e del tutto consono alla novità anche estrema di quanto ascoltato.

E basta riferirsi alla ben diversa produttività esplicata attraverso la potenza dei mass media per comprendere che le cose non stanno propriamente così: all’inverso la musica d’uso – quella, per intenderci, che al novanta per cento (almeno) invade la quotidianità del nostro orecchio – si presenta nella sua estrema semplicità – dunque legata alla quotidianità dell’ascoltatore medio – di fatto poetico-verbale in quanto però esaltato dai valori espressivi del canto, spesso di un’elementarità direttamente proporzionale all’orecchiabilità e al conseguente successo. Cosa mai può unire in termini di frequenza d’ascolto una popular song odierna ad un movimento di una Sinfonia o di un Concerto solista classico-romantici, o di una Sonata o di una Cantata barocche o, ancora, ad un Pezzo di carattere romantico o modernistico? E quali relazioni evolutive con generi vocali quali l’Aria d’opera o da camera, il Lied classico-romantico, la Canzone di tradizione o d’arte?

Sempre la musica vi è implicata. Ma di cosa stiamo parlando? Della stessa nozione di musica, variamente distribuita sul piano storico e geografico? O semmai di fenomeni ben distinti che andrebbero separatamente considerati, nella coscienza sia dei fruitori sia degli attori di primo piano, dunque degli stessi musicisti?

Un problema a monte va risolto, e non si tratta di questione da poco: l’opera d’arte nella performance corrisponde al contenuto della stessa – rappresentato dal testo musicale  – o a quanto prodotto da colui che la predispone, il performer – e, dunque, alla sua stessa capacità di dare appropriatamente vita a quel testo stesso? E se entrambi son degni di nota come si dispongono l’un l’altro? Prevale l’opera come “testo” sul performer, esecutore rispettoso e traduttore della “verità” in esso contenuto, oppure prevale l’interprete ricreatore (nel senso proprio di ri-creatore) e di quella stessa verità riformulatore, anche addirittura all’infinito secondo la prospettiva post-moderna?

L’opera d’arte e lo star-system

Partiamo provocatoriamente da una domanda paradossale: se l’interpretabilità ri-creativa si disponesse effettivamente all’infinito a cosa servirebbe comporre nuove opere, avendone già consegnate dalla Storia di perfette, che non aspettano altro che di essere costantemente rinnovate attraverso l’interpretazione creativa? Domanda mica tanto paradossale se poi ci si accorge che l’interprete medio del repertorio cd. “classico” è addirittura intimamente convinto sul piano anche meramente pratico che la domanda possa avere un senso. E cioè che i compositori del presente debbano tutt’al più aggiungere le loro opere a quel plurisecolare repertorio, senz’altro celebrativo della grandiosità del pensiero musicale occidentale; e innanzitutto da preservare.

In tal senso parrebbe in chiave storicistica del tutto legittima ed opportuna la reazione dei musicisti modernisti del trascorso secolo, e soprattutto degli alfieri delle novecentesche avanguardie musicali, che parlarono polemicamente di “musica museale”. Instaurandosi in contrapposizione nel potere accademico la categoria estetica positivizzante della “musica contemporanea”: un’operazione ideologica, oggi appare evidente, circoscrivendone le implicazioni critico-estetiche solo alla “loro” musica; rimasta non di rado in percentuale di fruizione estremamente bassa nelle sale da concerto e in tanta parte dei casi riferita ad opere prime raramente rieseguite; il che parrebbe definire almeno la prova del loro insuccesso.

Ma – a conti fatti – non la prova della loro disutilità. Perché la categoria della contemporaneità musicale, ma ancor più generalmente del modernismo artistico novecentesco – categoria ben più vasta e anche qualitativamente ben più articolata rispetto quanto prospettato dalle polemiche della Nuova musica – permane adesso come categoria di conoscenza delle problematiche riflessive e addirittura ricostitutive della stessa nozione di linguaggio. Vari modi di essere e di proporsi di essa difatti permangono potentemente sia a livello problematico sia a livello produttivo nella realtà musicale odierna. E la loro ricchezza è indiscutibile quando, liberata dall’involucro ideologico, si rende al modo di una proposta di libertà inventiva rinnovata e sconfinata (si potrebbe dir meglio: de-confinata).

Proprio in tale contesto decade la funzione dell’interprete – che, non andrebbe mai dimenticato, nella sua autonomizzazione pretesa ancor oggi come un valore assoluto costituisce solo un portato dell’estetica romantica e soprattutto della tradizione post-romantica del recital solistico. Ad elevato tasso di virtuosismo strumentale e rivolto ad un pubblico adorante, in un immaginario collettivo sempre ispirato dai miti romantico-borghesi dell’attivismo superomistico e della neoplatonica configurazione consequenziale dell’artista-performer come demiurgo e rivelatore della verità dell’opera. Opera d’arte intesa, essa stessa, come una sorta di imperscrutabile “parola divina”: in quanto genericamente ma autoritativamente espressa dall’altro feticcio, quello del “grande compositore”.

Eccolo trovato il bandolo della matassa. Il compositore e l’opera intesi come feticci, finalizzati – nella società consumistica ed economicistica dei mass media – all’affermazione di uno star-system: forse adesso in corso di rottamazione, o magari di rivitalizzante ricollocazione socio-culturale. Proprio a partire da tali feticci si producono idee del tutto sbagliate sulla funzione sociale del musicista e, correlatamente, sulla funzione culturale dell’insegnante di musica.

L’interconnessione tra musicalità e cultura musicale

Convertiamoci allora tramite chiare parole d’ordine che demistifichino gli stessi feticci.

1. Imparare non lo strumento musicale bensì la musica attraverso lo strumento musicale o, meglio ancora, gli strumenti musicali d’elezione. Dato che non dovrebbero esser meno di due, se si partisse equilibratamente dall’uso formativo e vincolato della vocalità e anche della corporeità quali originarie e sempre implicate matrici espressive.

2. Imparare a pensare la musica, e in musica, e non a vivere la produttività musicale passivamente di riflesso e sempre come un fatto mitico. Dunque considerandola in negativo solo nella esclusiva reiterabilità dei repertori, al di là del rispetto dei modelli socio-culturali proposti tanto all’origine quanto in prosieguo. E pertanto essere anche “compositori” e “improvvisatori”, nel senso in cui si esprime creatività componendo un riassunto, un tema, una critica estetica, una poesia, una recitazione espressiva, un monologo …, con un sempre più crescente tasso di consapevolezza culturale rispetto gli “oggetti” musicali (le musiche di ogni tempo e di ogni luogo) che in accumulo l’esperienza incessantemente ci propone.

3. Considerare pertanto le opere musicali come veri e propri testi (musicali; ossia: tanto di musica che sulla musica), con tutte le conseguenti, possibili implicazioni culturali. Testi da relazionare sempre agli autori, ai contesti e alle motivazioni produttive, alle vicende storiche ed epocali ad essi implicati, e perfino nel divenire storico della loro acquisizione.

4. Studiare i repertori della grande tradizione occidentale non innanzitutto per esibirli ma innanzitutto per comprenderli in crescente profondità; dunque per rendersi divulgatori o formatori, e dunque insegnanti, di quella complessità loro implicata. Perché la grandezza dell’opera d’arte – quando l’opera d’arte si rende grandiosa nella sua complessità e nella sua universalità – non va solo frequentata, goduta e ammirata … ma anche ben compresa in una costante (e forse, storicamente, infinita …) crescita di consapevolezze espressive di senso e di significato; altrimenti essa si rende e si renderà disutile per noi e per i nostri posteri.

In definitiva il percorso virtuoso dovrà tendere sempre più ad includere la scritturalità dell’opera nell’oralità dell’esistenza e non più viceversa come accade ancor oggi nei rapporti tra performance esecutiva e improvvisazione e, conseguentemente, nelle relazioni interdisciplinari tra studi fondati sull’oralità, quali quelli etnomusicologici oppure delle musiche cd. audio-tattili quali il jazz, e studi fondati sulla scrittura quali quelli tradizionali conservatoriali, riferiti innanzitutto al repertorio cd. classico. Dato che, antropologicamente, siamo innanzitutto individui “orali”: dotati di pensiero e di corpo e sempre comunque attivi e comunicativi; e dato che la scrittura, espressa dall’opera in quanto testo (anche musicale), deve contribuire a rinforzare questa oralità, come partecipazione di fatto nel corpo e nel pensiero del contenuto dell’opera; e non certo a piegarla esclusivamente ad esigenze puramente esteriori di conservazione e trasmissione.

Il bravo performer, esecutore e interprete musicale, è diventato innanzitutto un conservatore e trasmettitore di questo grande patrimonio. E dello stesso egli sembra, in quanto interprete (solista, direttore d’orchestra …), da oltre un secolo costituirsene rappresentante al modo di un sacerdote che salvaguarda e governa la secolarità del verbo divino. Ma se aspira a fare anche il musicista completo (e non esclusivamente il semplice musicante pratico, ossia qualificandosi al modo di una manovalanza priva di consapevolezza estetico-culturale e critico-analitica del proprio agire: tutt’al più un solerte “chierichetto” rispetto la conduzione del “celebrante” interprete) e se ancor più si dispone a svolgere la difficile funzione dell’insegnante e dell’educatore in genere – come dire: del motivante animatore di musica – è bene che sappia che prima di tutto gli toccherà “ritornare allo stato laicale” e dunque di spogliarsi delle vesti del “sacro” e rivestirsi degli abiti dello “scientifico”: che sia espresso in termini storici o teoretici, pedagogici o musicologici …

Si tratta dei primi importanti passi che toccherà fare alle nuove generazioni che si aprono incerte e confuse alle vicende artistiche del ventunesimo secolo e del terzo millennio. L’aporia formativa che trova oggi a confronto musicisti che suonano leggendo – solo fino a qualche trascorso decennio definiti in esclusiva musicisti “colti” – e musicisti che suonano ascoltando – definiti, viceversa e talora anche offensivamente, come “orecchianti” – potrà allora meglio sanarsi all’interno di più mirate questioni metodologiche. Nella consapevolezza resa operativamente funzionale che l’intelligenza musicale si esprime in termini multifattoriali, intersecanti modi di esprimersi più privilegiate in altre forme di intelligenza. E che la sua articolazione in appropriati schemi cognitivi – traducibili al modo di condotte tanto generali quanto musicalmente specifiche – sia non solo osservabile ma anche agibile direttamente e sistematicamente tramite più appropriate forme di apprendimento e di conoscenza.

(Mario Musumeci – articolo aggiornato il 21-05-2015)

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