Complottismo e interpretazione fattuale. A proposito di un saggio sulla guerra in Ucraina “scritto contro l’establishment americano”

by M&M

Ricevo e commento subito a margine questo articolo-saggio a nome di John Florio uscito questa settimana sul nuovo numero di Limes. Chi è John Florio? Molto probabilmente si tratta – come ho visto sostenere da più parti – dello stesso direttore di Limes, Lucio Caracciolo, “quando deve scrivere articoli scomodi contro l’establishment americano o l’Europa” (nostro corsivo).

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PENSIERI MOSSI DALL’AMBIZIONE. L’OCCIDENTE E LA GUERRA IN UCRAINA

1. L’allargamento della Nato, che avrebbe dovuto promuovere «stabilità e pace nell’intera regione» si è concluso con un terremoto geopolitico che ha travolto le fondamenta stesse dell’architettura di sicurezza europea. Generando profondissima instabilità geopolitica, economica e sociale nel cuore dell’Europa. Facendo precipitare il globo nella più acuta e pericolosa crisi sicuritaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Rigurgito d’imperialismo russo, vuole la vulgata. Catastrofica eterogenesi dei fini implicita nelle premesse messianiche della dottrina dell’allargamento democratico, variante clintoniana dell’idealismo wilsoniano, secondo una prospettiva più realista. Inevitabile esito di pensieri mossi dall’ambizione di estendere allo spazio post-sovietico – Russia inclusa – la Pax Americana, dando anche a questo pezzo di mondo «il futuro che merita». Alla radice, l’idea di plasmare un ordine mondiale democratico, rendendo il globo un arcipelago di democrazie in rivoluzione permanente intorno al sole di Washington, «nella straordinaria presunzione che un mondo simile sia non soltanto possibile, ma naturale».

2. L’universalismo morale (ri)abbracciato dall’America come scopo e giustificazione della propria potenza dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, estendendo in indefinitum i confini dell’alleanza politico-militare che era nata per contenerla, si è così scontrato – ancora una volta – contro le immutabili leggi della geopolitica. Non prima però di aver fatto sbocciare i fiori del male dell’odio etnico ai confini d’Europa, fomentando particolarismi nazionalistici che si contendono manu militari la primogenitura sulle terre di frontiera (Ucraina) abitate da popolazioni slave. Con il plauso di Bruxelles e il sostegno più o meno convinto delle cancellerie europee, che soffiano sul fuoco del conflitto fornendo armi e addestrando 30 mila militari ucraini in nome del principio di autodeterminazione nazionale, mentre fino a ieri invocavano la cessione di sovranità, radice di ogni guerra, cantando in coro le virtù sovranazionali di «L’europa», nata per superare tutti i nazionalismi. Per nulla preoccupati che tanta disinvoltura nel rinnegare il proprio credo possa suscitare qualche dubbio sulla sua reale consistenza. Al contrario, ansiosi di giustificare la guerra in nome dell’Europa e dei suoi valori, derubricando la contesa in termini di scontro tra autocrazie e democrazie. Come se l’Ucraina fosse una novella Atene, anziché una cleptocrazia anarchica dove, semmai, la guerra ha accelerato il processo di concentrazione del potere oligarchico (per estromissione di quello non allineato), in perfetta analogia con quanto accaduto in Russia dopo l’ascesa di Putin.

3. Si compie così il trapasso dall’europeismo irenistico al fondamentalismo da crociata in nome dei valori assoluti (i nostri, ovviamente). E quando si tratta di valori supremi, Weber insegna, «nessun prezzo è troppo alto»: né il disordine mondiale né tantomeno il sacrificio – eroico quanto inutile – degli ucraini, immolati sull’altare della «guerra giusta» insieme alla pace e ai «condizionatori». La «brutale e ingiustificata invasione russa», secondo la formula ufficiale, diventa così la hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere: l’alibi per connotare la guerra di fosche tinte metafisiche, ovvero come scontro tra civiltà e barbarie anziché come banale conflitto di interessi. «I vecchi dèi risorgono dalle loro tombe e riprendono la loro antica battaglia, ma disincantati – e dobbiamo aggiungere oggi – con nuovi strumenti bellici, che non sono più armi convenzionali, bensì terrificanti mezzi di annientamento e metodi di sterminio». E così, anziché aiutare ucraini e russi a ricomporre nell’alveo della diplomazia i loro confliggenti interessi, gli Stati Uniti e i loro corifei fomentano in modo interessato uno scontro all’ultimo sangue in nome della giustizia, «trasformando la nostra terra in un inferno, ma l’inferno in un paradiso di valori» (fiat iustitia, pereat mundus). Quella dei valori è infatti una tirannia che nasconde, più che svelare, le reali cause del conflitto in corso, ovvero il mondanissimo conflitto d’interessi che è la materia di cui è fatta la politica internazionale. Impedendo quindi di immaginare una sua soluzione che non sia l’annientamento o il collasso dell’avversario. Di fatto spingendo lo scontro lungo l’abissale sentiero – lastricato di assolutismi morali – che dopo le guerre di religione (1524-1697) e le due guerre civili europee (1914-1945) l’Europa aveva giurato a sé stessa di non voler ripercorrere: quello verso il nulla.

4. A poco vale ribattere, come fanno le anime belle dell’interventismo salottiero, che gli ucraini «lo vogliono». Ricorrere selettivamente al principio di autodeterminazione dei popoli (ovvero a quel principio che in generale non può valere per l’Italia, che deve rinunciare all’egoistico interesse nazionale, ma deve valere per l’Ucraina, anche se ovviamente non per le sue minoranze russe) suona più come circonvenzione d’incapace che come argomento a dimostrazione della bontà della causa Anche fosse così, infatti, e tralasciando l’ovvia considerazione che lo stato di eccezione in vigore in Ucraina dal 24 febbraio ha ridotto al silenzio ogni voce dissidente rispetto alla martellante narrazione governativa (tutti i canali televisivi sono confluiti in un’unica piattaforma di «comunicazione strategica» gestita dall’esecutivo), sarebbe compito di noi occidentali tentare di spiegare agli amici ucraini (e ricordare a noi stessi) che le gioie della devastazione sono altezze che non vale la pena di sperimentare. Specie in nome dell’affermazione di un volere astratto e assoluto come quello di appartenere alla Nato a prescindere da ogni concreta considerazione strategica, oltre che di opportunità politica.

5. Negli scorsi anni nessuno ha pensato di ricordare alla giovane leadership ucraina quello che Hegel scriveva nei Lineamenti di filosofia del diritto: «Gli allori del puro volere sono foglie secche mai state verdi» 5. Nessuna comunità politica è incondizionata e gode in quanto tale di assoluta libertà di azione. Come gli individui, anche gli Stati patiscono una forma di heideggeriana gettatezza, gettati come sono sulla mappa geografica, in un contesto storico-geopolitico che non hanno scelto ma in cui si trovano di fatto a esistere e a progettarsi 6. Guai a quella comunità che, in preda a deliri di onnipotenza, pensasse di potersi astrarre da tali condizionamenti. Ovvero di poter trascendere la propria «storicità» sulle ali di cera della pura ambizione: così facendo essa condannerebbe sé stessa alla più tragica (e prevedibile) delle fini, come narra Tucidide a proposito dei Meli nella Guerra del Peloponneso. La stessa esperienza americana (e l’esito delle sconclusionate iniziative occidentali in Medio e Vicino Oriente) dimostra che, anche al culmine della potenza, per quei pochi che la raggiungono, la libertà d’azione, lungi dall’essere assoluta, deve misurarsi con vincoli geostorici che limitano di volta in volta l’orizzonte del politicamente possibile.

6. Tali condizionamenti non sono una scelta ma una realtà, che si può ignorare solo a proprio rischio e pericolo. È questa realtà che la classe dirigente ucraina stenta a comprendere, incoraggiata al contrario dai suoi alleati a giustificare le proprie politiche (racchiuse nel motto prebellico di «irreversibilità dell’integrazione euroatlantica») in base a ragionamenti astratti e al ricorso (inconsapevole) alla weberiana etica dei princìpi assoluti. Perfino quando tali politiche portano il proprio popolo allo scontro frontale contro l’Orso russo (in violazione dell’etica della responsabilità). Eppure, in un contesto come quello internazionale, che fino a prova contraria rimane anarchico, la volontà di un paese è di per sé tanto legittima quanto quella del suo vicino. È proprio il confliggere delle volontà, ovvero degli interessi, a definire l’essenza della politica in generale. La diplomazia moderna nasce in Europa dopo le guerre di religione per ridurre l’attrito tra volontà assolute e inconciliabili, che avevano dissanguato il continente nel tentativo di eliminarsi a vicenda. Riconoscendo la legittimità dell’esistenza di un’altra soggettività politica e la tolleranza di punti di vista diversi – ovvero accettando l’esistenza di una molteplicità di Stati 7.

7. È quindi fondamentale, per immaginare una possibile via d’uscita dal conflitto in corso, far emergere dalle cose stesse il sostanziale conflitto di interessi tra le parti in causa, al di là delle ideologie che lo mascherano o lo alimentano. Impresa possibile solo abbandonando ogni sterile approccio ideologico – per definizione unilaterale, poiché autocentrato sulla comprensione che chi lo propone ha di sé e del mondo. Futile giudicare la storia in base ai propri valori, nell’infantile presunzione che la proiezione delle proprie convinzioni possa kantianamente valere come principio di una legislazione universale – e così spiegare l’altrui modo di stare nel mondo e nella storia. Utile invece tentare di comprendere le cause degli eventi, guerre comprese, che accadono sempre per qualche motivo («il reale è razionale», e come tale mai «ingiustificato»). Essenziale, per liberarsi dagli schemi ideologici oggi dominanti, ribadire che l’uomo si innalza veramente al rango di animale (geo)politico solo quando è capace di misurarsi con la potenza del negativo, ovvero con l’altro da sé, cui del resto è costitutivamente consegnato e destinato: esercizio refrattario a ogni dialettico superamento o scioglimento dell’alterità nella pura identità 8. Problema, per chi tende a considerare l’altro come un sé stesso in potenza, ovvero illusione di alterità. L’esperienza, però, dimostra che la storia degli uomini e dei popoli è distillatrice di singolarità. Nelle «cose stesse» va dunque ricercato il bandolo del presente, la chiave ermeneutica per comprendere il cruciale passaggio storico che stiamo attraversando. Riavvolgendo il nastro all’alba del momento unipolare, all’inizio degli anni Novanta. Quando i consiglieri di Clinton si trovarono, loro malgrado, a dover aggiornare la politica del contenimento, archiviata causa implosione dell’impero del Male 9.

8. È noto che la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991 e la non rielezione di George H. W. Bush nel novembre dell’anno successivo avevano messo una pietra tombale sul progetto di un nuovo ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra Usa e Urss. Progetto che Gorbačëv e Bush avevano delineato a Malta nel dicembre 1989 e poi discusso a Helsinki nel settembre 1990 mentre si concludeva il processo che avrebbe condotto alla riunificazione della Germania. Come disse all’epoca il presidente americano al suo omologo sovietico, «io voglio lavorare con te come equal partner nell’affrontare questo tema (del nuovo ordine internazionale n.d.a.). Voglio ritornare dal popolo americano domani notte per chiudere il libro della guerra fredda e offrirgli la visione di un nuovo ordine mondiale in cui noi coopereremo» 10. La ratio dell’intesa raggiunta a Helsinki – di cui Henry Kissinger fu il segreto ispiratore, con la sua proposta di una Jalta II 11 – si fondava «sullo scambio tra la rinuncia sovietica alle posizioni del passato con la modifica concordata delle regole del sistema internazionale», creando un nuovo ordine mondiale centrato sull’interesse nazionale, riconosciuto quale «fondamento della politica estera e della sicurezza di ogni Stato» 12. Coerente con i princìpi del nuovo ordine che intendeva plasmare con Gorbačëv, Bush fece del suo meglio per gestire «con moderazione e saggezza» 13 il predominio americano, evitando di sfruttare le difficoltà in cui versava l’Unione Sovietica nelle convulse fasi seguite al suo frettoloso e incauto tentativo di ristrutturazione interna.

9. È in questo contesto che si colloca la promessa fatta dagli americani a Gorbačëv per la prima volta alla fine del 1989, e più volte reiterata, che la Nato non si sarebbe allargata «neanche di un centimetro» 14. Come ricorda un testimone sovietico del primo colloquio, avvenuto poche settimane dopo il crollo del Muro di Berlino, tra il segretario di Stato Usa James Baker e il presidente Gorbačëv (e come confermato da altri resoconti americani oggi disponibili 15), gli Stati Uniti non solo erano pronti a garantire a Mosca che l’Alleanza Atlantica non si sarebbe allargata, ma «per conferire solide basi all’accordo» che avrebbe portato all’unificazione tedesca erano pronti anche «a fornire garanzie scritte in proposito e chiedevano solo di conoscere le richieste sovietiche» 16. In quel momento, benché il Muro fosse caduto, le strutture della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) erano ancora integre e l’Urss manteneva dispiegati in Germania Est oltre 350 mila militari: nessuno intendeva rischiare lo scontro. Gli incontri successivi, a cominciare da quello di Mosca del febbraio del 1990, confermarono però a Baker (e a un incredulo Bush) che Gorbačëv e il suo ministro degli Esteri non intendevano chiedere alcuna garanzia formale: l’Unione Sovietica cedeva unilateralmente tutte le sue posizioni in Europa centrale in base al principio per cui «con gli amici non si mercanteggia» (secondo la testuale formula usata in quell’occasione dal ministro degli Esteri sovietico e futuro presidente della GeorgiaShevardnadze) In nome di quello che chiamava «nuovo pensiero», «Gorbačëv aveva accettato senza sostanziali contropartite di rinunziare agli assetti europei ottenuti dall’Urss con la seconda guerra mondiale e rimasti immutati per tutta la guerra fredda» 18. Gorbačëv forse ignorava la lezione di Lord Palmerston (per cui «non abbiamo né alleati eterni né nemici eterni, ma solo eterni interessi, e il nostro dovere è perseguirli»), ma in ogni caso trascurò l’ovvia constatazione che gli amici di ieri possono facilmente diventare i nemici di domani, e viceversa 19. L’amministrazione Bush, compatibilmente con il quadro allora esistente, perseguì tuttavia con coerenza l’obiettivo di dare vita a un ordine internazionale cooperativo con l’Urss, benché proprio la crescente debolezza del governo sovietico lo rendesse ogni giorno meno plausibile. Prova ne è il viaggio che Bush compì a Kiev il 1° agosto 1991, dopo aver ribadito il giorno prima a Gorbačëv che il collasso dell’Urss non sarebbe stato «nell’interesse americano». In quell’occasione Bush delineò davanti al Soviet supremo dell’Ucraina (oggi sede della Verkhovna Rada, il parlamento) l’approccio statunitense, in un momento in cui il vento separatista soffiava sempre più forte su un’Unione Sovietica indebolita dall’erratica politica dei suoi vertici: «L’America sostiene chi nel centro e nelle repubbliche persegue la libertà, la democrazia, la libertà economica», ma non «coloro che cercano l’indipendenza per sostituire una tirannia lontana con un dispotismo locale». Richiamando la natura multietnica e federale degli Stati Uniti d’America, Bush spiegò che «libertà non è la stessa cosa che indipendenza: la libertà richiede tolleranza, un concetto incorporato nell’apertura, nella glasnost’». E precisò come per gli americani essa si riferisse alla possibilità di vivere «senza la paura dell’intrusione del governo». Quindi, in modo inequivocabile, chiarì che «gli americani non sosterranno coloro che promuovono un nazionalismo suicida basato sull’odio etnico». Bush terminò il discorso incoraggiando gli ucraini a dar seguito all’accordo raggiunto nell’aprile precedente tra il Cremlino e nove repubbliche eurasiatiche, tra cui l’Ucraina, per la creazione di un’Unione più decentrata. «Sosteniamo coloro che esplorano le frontiere della libertà. Ci uniremo a questi riformatori sulla via di ciò che chiamiamo – opportunamente – un nuovo ordine mondiale». La destrutturazione del potere sovietico aveva però ormai raggiunto la fase terminale e un tale ordine non vide mai la luce. Il 24 agosto, approfittando della confusione seguita al fallito colpo di Stato a Mosca del 19 agosto, il Soviet supremo dell’Ucraina guidato da Leonid Kravčuk, che pochi giorni prima aveva applaudito in standing ovation le parole del presidente Bush 20, dichiarò l’indipendenza di Kiev (diventando successivamente il primo presidente dell’Ucraina indipendente). L’8 dicembre dello stesso anno i vertici (sovietici) di Russia, Ucraina e Bielorussia – l’Urss era ancora formalmente in vigore – si riunirono in segreto senza Gorbačëv in una foresta al confine tra Bielorussia e Polonia per cancellare l’Unione Sovietica dalla carta del mondo. La risoluzione approvata dai tre leader locali fu comunicata al presidente Gorbačëv e al paese come un ordine, proprio nel momento in cui una bozza di trattato per una Unione di Stati sovrani veniva discussa dai parlamenti (Soviet supremi) delle repubbliche. Il nazionalismo sostituiva il comunismo come ideologia ufficiale delle neo-repubbliche, diventando fonte di legittimazione della loro statualità, benché gli attori al vertice del potere fossero gli stessi apparatčik che fino al giorno prima avevano predicato l’ortodossia marxista-leninista.

10. La «catastrofe geopolitica» rappresentata per Mosca dalla dissoluzione dell’Urss coincideva per l’America con l’improvviso ingresso nel paradiso del potere. Era ingenuo pensare che il vuoto creato dal crollo dell’impero sovietico potesse rimanere terra di nessuno: il potere politico – come la natura – aborre il vuoto 21. «La nostra strategia deve ora concentrarsi sul prevenire l’emergere di qualsiasi futuro competitore globale», sentenziava la prima Defence Planning Guidance del Pentagono successiva al crollo dell’Urss Com’era prevedibile, nonostante il dissolvimento del Patto di Varsavia e la fine della competizione bipolare gli Stati Uniti non manifestarono alcuna intenzione di perdere il monopolio nel campo della sicurezza euroatlantica esercitato attraverso la Nato. L’America entrava trionfante nel «momento unipolare» con l’obiettivo di non vederne mai il tramonto. Anzi, nutriva fin dall’inizio l’intenzione di consolidare la propria posizione di «potere incontrastato». Come ricorda un autorevole interprete della Weltanschauung americana, «nella fine della guerra fredda (gli Stati Uniti, n.d.a.) non hanno visto l’occasione per tirare i remi in barca, bensì l’occasione per espandere la propria sfera di influenza, estendere in direzione della Russia l’alleanza da loro guidata, stabilendo nuove frontiere per i loro interessi» 24. Motivo per cui, sia detto di passaggio, le aspirazioni geopolitiche dell’Europa, per quanto timide e contradditorie, dovevano essere stroncate sul nascere («dobbiamo cercare di prevenire l’emergere di accordi di sicurezza esclusivamente europei che minerebbero la Nato, in particolare la struttura di comando integrata dell’Alleanza» da sempre saldamente in mano statunitense). Più profondamente, l’assenza di contendenti rendeva incontenibili le straordinarie ambizioni americane, inscritte nell’inossidabile, perché fondativa, convinzione del proprio eccezionalismo. «Nazione insostituibile» chiamata ad agire «per conto dell’umanità», l’America intravvide nella nuova realtà geopolitica l’occasione per realizzare la sua più profonda aspirazione: plasmare il «nuovo mondo» alla luce dei princìpi americani dell’ordine, trascendendo una volta per tutte l’equilibrio di potenza. Obiettivo che, nella visione clintoniana, comportava necessariamente l’allargamento della Nato, pilastro e strumento insostituibile dell’influenza americana in Europa 26. Non è un caso che alla ricerca di uno slogan efficace con cui – in mancanza di una chiara minaccia strategica – sostituire il concetto di «contenimento», Clinton finì per concepire la sua politica estera in termini di «allargamento democratico». L’amministrazione Clinton distillò dalla teoria della fine della storia l’idea che, una volta concluso il processo di integrazione economica e allargamento della democrazia (colmando il vacuum lasciato dall’implosione dell’Urss), l’egemonia più o meno consensuale conquistata dall’America durante la guerra fredda, allargata all’Europa centro-orientale, «sarebbe semplicemente assurta a sistema internazionale».

11. Si radica in questo terreno concettuale l’obiettivo di espandere la Nato fino alle propaggini estreme dell’Eurasia: espansione che il dipartimento di Stato pianificò in dettaglio già nel settembre 1993, prevedendo entro il 2005 l’ingresso nell’Alleanza di Ucraina, Bielorussia e Russia L’idea era quella di avvolgere lo spazio post-sovietico in una rete di democrazie («un’alleanza di democrazie di mercato») che avrebbe impedito il risorgere della politica di potenza, creato una «vasta area di pace» sotto la naturale egemonia americana e realizzato il sogno di costruire un grande «impero della libertà» con Washington sua capitale. Pacificazione mediante liquidazione del sistema multipolare, ovvero unipolarismo mascherato da multilateralismo: giacché, come ricordava uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti, «gli imperi non hanno interesse a operare all’interno di un sistema internazionale, ma aspirano a essere il sistema internazionale. Gli imperi non hanno bisogno di un equilibrio di potere. Questa è la politica degli Stati Uniti nelle Americhe». Ora lo era ufficialmente anche in Europa.

12. La politica di estensione dell’egemonia americana «dall’Elba agli Urali» mediante allargamento dell’Alleanza Atlantica presupponeva, neanche troppo implicitamente, l’acquiescenza russa. Ma come avrebbe reagito la Russia al grand design che l’America di Clinton aveva concepito per l’ordine mondiale post-sovietico? Quando l’amministrazione americana iniziò a discutere i piani di allargamento della Nato, nell’estate del 1993, i funzionari del dipartimento di Stato che seguivano il dossier erano «in maggioranza contrari, temendo i suoi effetti sull’Alleanza e sulle relazioni Usa-Russia» 31. Era infatti condiviso il timore che un simile dinamismo sarebbe stato letto dai russi – sprofondati nell’impotenza ma eredi dell’impero zarista e di quello sovietico – per quello che era: «Una strategia per sfruttare la loro vulnerabilità e spostare la linea divisoria dell’Europa a est, isolandoli», come candidamente ammetterà nelle sue memorie M. Albright, segretario di Stato di Clinton dal 1997 al 2001 32.

In un telegramma indirizzato al segretario di Stato Warren Christopher, risalente all’ottobre 1993, l’ambasciatore Usa a Mosca spiegò come la questione della Nato fosse «nevralgica» per i russi: «Temono di finire dalla parte sbagliata di una nuova divisione dell’Europa. Per quanto sfumata, se la Nato adottasse una politica che prevedesse l’espansione nell’Europa centrale e orientale (…) questa verrebbe universalmente interpretata a Mosca come diretta contro la Russia e unicamente contro la Russia – una forma di “neocontenimento”» 33. Nel 1997, alla vigilia del vertice Nato di Madrid che avrebbe schiuso l’ingresso nell’Alleanza di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, sarà lo stesso architetto della politica di contenimento dell’Unione Sovietica, George Kennan, ad ammonire dalle colonne del New York Times che «espandere la Nato sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intero periodo successivo alla guerra fredda» 34. Da decano degli esperti di Russia in America, Kennan prevedeva che una tale decisione avrebbe «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche nell’opinione pubblica russa, con un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia in Russia, riportando l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni Est-Ovest». Kennan si domandava: «Perché, con tutte le possibilità di speranza generate dalla fine della guerra fredda, le relazioni Est-Ovest dovrebbero concentrarsi sulla questione di chi dovrebbe essere alleato con chi, e quindi contro chi, in qualche fantasioso, imprevedibile e improbabile futuro conflitto militare?».

I documenti oggi consultabili dimostrano che la non espansione della Nato era il presupposto (ancora una volta fallace) dell’iniziativa politica di El’cin 35. Quando il neopresidente russo scoprì che, malgrado le pacche sulle spalle, l’America si preparava invece ad attuarla, i suoi appelli all’amico Clinton per fermarla si dimostrarono vani e disperati, come tentare di fermare il moto dei pianeti. In una lettera datata 15 settembre 1993, El’cin esprimeva a Clinton («dear Bill») il «disagio russo» di fronte all’ipotesi di espansione dell’Alleanza Atlantica, non nascondendo di preferire un «approccio diverso» (ovvero un «sistema di sicurezza paneuropeo basato sull’azione collettiva, non sull’appartenenza a un blocco»). Pur riconoscendo «il diritto sovrano di ciascuno Stato di decidere come garantire la propria sicurezza, incluso partecipando ad alleanze politico-militari», El’cin spiegava che «non solo l’opposizione, ma anche i circoli moderati (in Russia, n.d.a.) percepirebbero l’allargamento della Nato come una forma di neo-isolamento del nostro paese, antitetico alla sua naturale ammissione nello spazio euroatlantico». Ricordava quindi a Clinton la promessa fatta dal suo predecessore a Gorbačëv, ribadendo che «lo spirito del trattato sull’assetto finale relativo alla Germania firmato nel settembre 1990, specialmente le sue disposizioni che proibiscono il dispiegamento di truppe straniere sui territori orientali della Repubblica Federale Germania, preclude l’opzione di espandere la zona Nato a est» 36. Il 29 novembre 1994 El’cin reiterava a Clinton l’auspicio che fosse la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, non la Nato, l’architrave del sistema di sicurezza europea e ribadiva «di non riuscire assolutamente a comprendere le ragioni dell’avvio dei negoziati» per l’allargamento dell’Alleanza Atlantica, che «saranno interpretati, non solo in Russia, come l’inizio di una nuova divisione in Europa» 37. Pochi giorni più tardi, alla Conferenza di riesame dell’Osce a Budapest (dicembre 1994), El’cin si rivolse platealmente a Clinton chiedendogli: «Perché stai piantando i semi della sfiducia? L’Europa rischia di sprofondare in una pace fredda. (…) La storia dimostra che è una pericolosa illusione pensare che i destini dei continenti e della comunità mondiale in generale possano essere gestiti da una sola capitale».

Nel 1994 era dunque chiaro a Washington che l’allargamento della Nato non sarebbe stato affatto accolto con acquiescenza da Mosca, ma anzi interpretato – correttamente – come la volontà di escludere la Russia dal sistema di sicurezza europeo, dunque come tradimento della promessa di cooperazione in nome della quale Gorbačëv aveva smantellato pezzo dopo pezzo l’Unione Sovietica 39. I tentativi (simbolici) di correggere l’impressione russa che l’obiettivo dell’allargamento della Nato fosse quello di paralizzare il potenziale strategico di Mosca, ad esempio con la creazione del Consiglio Nato-Russia nel 2002, erano destinati al fallimento, poiché gli Stati Uniti non avevano – né mai nutrirono – alcuna reale intenzione di lasciare che il Cremlino acquisisse un reale potere decisionale (o di veto) in seno all’Alleanza o al comando militare integrato, alterando gli equilibri interni alla Nato, «strumento della presenza americana in Europa» (Baker).

Se dunque l’alleanza strategica russo-americana immaginata da El’cin era una chimera, il grand design statunitense – creare una vasta area di pace e stabilità tramite l’allargamento della Nato – era contradditorio e in definitiva irrealizzabile se non a prezzo del conflitto, come dimostra l’esito ultimo di tale politica (la guerra in corso da oltre un anno nel cuore dell’Europa). Era ingenuo pensare che un grande paese con una profondità storica come la Russia, per quanto umiliato e offeso, potesse semplicemente autodestituirsi, rinunciando all’idea di avere una propria autonomia politica e strategica, al pari di una Polonia o Slovacchia qualsiasi. Esattamente quello che esigeva il disegno americano: l’incorporamento della Russia come appendice del blocco atlantico. Una prospettiva altrettanto irrealistica di quella di Mosca, la cui classe dirigente aveva immaginato di poter condividere lo scettro del potere mondiale con l’America in nome della buona volontà dimostrata nel porre fine alla guerra fredda. Ma il cammino era ormai già tracciato. Gli americani sapevano bene che la Russia non avrebbe in ogni caso potuto fermare il processo, un concetto che Clinton fece arrivare forte e chiaro a El’cin durante il suo viaggio a Mosca nel 1995: «Non continuare a chiedermi di rallentare (il processo di allargamento, n.d.a.) o noi dovremo continuare a dirti no». El’cin ne divenne, a sue spese, ugualmente consapevole: l’impotenza in cui era sprofondato il suo paese, impoverito dalle privatizzazioni selvagge prescritte dal Washington Consensus e militarmente in disfacimento, limitava la sua protesta al flatus vocis, ma prefigurava già l’inevitabilità del conflitto che ne sarebbe derivato: «Non vedo altro che umiliazione per la Russia se procedi. (…) Perché vuoi fare questo? È una forma di accerchiamento se il blocco superstite della guerra fredda si espande fino ai confini della Russia. Molti russi provano un senso di paura. Cosa volete raggiungere con questo, se la Russia è vostro partner?. (…) Abbiamo bisogno di una nuova struttura per la sicurezza paneuropea, non delle vecchie strutture (…) non di creare blocchi. Per me accettare che i confini della Nato si espandano verso quelli della Russia costituirebbe un tradimento del popolo russo».

La guerra è plastica rappresentazione dell’effetto destabilizzante della geopolitica americana di «allargamento democratico» sull’architettura di sicurezza europea. Analogamente alla Germania guglielmina dopo il congedo di Bismarck, la ricerca di sicurezza assoluta dell’Occidente dopo il 1991 attraverso l’espansione della Nato ha prodotto in Russia la minaccia di insicurezza assoluta, scatenando processi distruttivi dell’ordine, della stabilità e in definitiva della pace. Esattamente il contrario di quello che si voleva ottenere con l’allargamento democratico, uno slogan che nasconde un vuoto intellettuale speculare al provincialismo politico di cui è espressione. Una pace durevole, come quella che avrebbe potuto vedere la luce dopo la dissoluzione (e quindi la sconfitta) dell’Urss, avrebbe infatti richiesto che la potenza vincitrice tenesse in conto gli interessi fondamentali dello sconfitto: ciò fu fatto a Vienna nel 1814-15 con la Francia, ma non a Parigi nel 1919 con la Germania (un errore che generazioni di europei dissero di non voler mai più ripetere) 42. Solo così sarebbe stato possibile trasformare il sistema internazionale emerso dalla fine della guerra fredda in autentico ordine internazionale («world order»), concetto che implica stabilità e presuppone equilibrio, ovvero la legittimità che solo gli Stati che interagiscono sullo scacchiere internazionale possono riconoscergli (o negargli). Ma affinché possa darsi consenso sulla legittimità dell’ordine esistente, riducendo l’attrito tra confliggenti volontà statuali, è necessario che siano riconosciuti (e presi in dovuta considerazione) gli interessi fondamentali (o «minimi») dei principali poli del sistema, in un delicato equilibrio tra potere e legittimità.

Complice la smisurata hybris derivante dalla «certezza dell’assoluta superiorità dei princìpi e degli ideali fondativi degli Stati Uniti rispetto (…) a quelli delle nazioni e dei governi di tutta la storia» 43, la potenza vincitrice dalla guerra fredda – l’America – non ha saputo distillare dallo straordinario potere consegnatole dall’implosione dell’Urss un ordine legittimo, ma solo una visione autocentrata e unilaterale, incurante di ogni considerazione geopolitica e priva di coscienza storica. L’America non è stata capace così di riconoscere alla Russia quello che riconosce a sé stessa: il diritto di tutelare la propria sicurezza nazionale, come orgogliosamente rivendicato dalla dottrina Monroe («considereremo pericoloso per la nostra pace e la nostra sicurezza ogni tentativo di estendere i loro sistemi (delle potenze europee, n.d.a.) a qualsiasi area del nostro emisfero»). Al contrario, Washington ha esteso la propria alleanza politico-militare ai paesi del dissolto impero sovietico in nome di un impossibile approccio unipolare all’ordine, privo com’è di profondità storica, con l’esplicito intento di rimuovere alla radice ogni possibilità che la Russia esprimesse un ruolo autonomo nel sistema internazionale. Impedendo (anche a costo di farla saltare in aria) ogni «pericolosa» integrazione di Mosca all’interno di un sistema di relazioni non conflittuali con i paesi europei, Germania in primis, nel timore che ciò potesse favorire l’agglomerarsi di un polo di potenza geoeconomico con proiezione eurasiatica, tale da minacciare l’egemonia assoluta americana sull’Europa, provincia più pregiata dell’impero.

Impiegando tattiche brutalmente realiste in nome di un disegno profondamento idealistico, in un rovesciamento dialettico connaturato all’intrinseca aggressività di una politica estera che annulla la differenza tra interessi e valori 44, la teoria dell’allargamento democratico si è inevitabilmente tradotta in crescenti e sempre più invasive pressioni americane sulla classe dirigente ucraina perché scivolasse verso la Nato, recidendo una volta per tutte i suoi legami politici, economici e culturali con la Russia. Pressioni culminate nel 2014 con la destituzione di Janukovyč, reo di perseguire una politica «multivettoriale», tesa a soddisfare con una buona dose di spregiudicatezza e opportunismo (ma anche di pragmatismo) tanto le aspettative dell’Occidente quanto quelle russe, mantenendo l’Ucraina in un sistema di «alleanze sovrapposte» (con Bruxelles e Mosca contemporaneamente) 45. Nel tentativo di estrarre il maggior vantaggio possibile per il proprio paese 46 e preservare la pacifica convivenza tra le molte anime della «nazione» ucraina, coacervo di lingue, storie e culture eterogenee. Motivo per cui ogni tentativo di presentare la guerra in corso come una guerra di liberazione e autodeterminazione nazionale dalle romantiche tinte risorgimentali dimentica, inter alia, che non esiste una identità ucraina omogenea, essendo l’Ucraina il contrario di uno Stato nazionale nel senso classico del termine, più vicina com’è a un’espressione geografica à la Metternich che a una comunità di lingua, tradizioni e cultura à la Fichte. Come ammoniva profeticamente Kissinger nel 2014, «qualsiasi tentativo dell’Ucraina cattolica e di lingua ucraina di dominare l’altra Ucraina ortodossa e russofona condurrà necessariamente alla guerra civile e alla fine dell’unità nazionale» 47.

12. Le vicende che ha conosciuto l’Ucraina dal 1991 a oggi non possono essere comprese se non all’interno del Grande Gioco di cui abbiamo sommariamente indicato i termini e definito la scacchiera. Ogni tentativo di separare l’aggressione russa dal contesto geopolitico in cui si inserisce, o di spiegarla insistendo su aspetti marginali e parziali, come la volontà di autodeterminazione degli ucraini, significa «isolare la crisi ucraina dalla complessità geostrategica in cui essa ha preso origine e dove si è sviluppata e, quindi, mistificarne capziosamente la portata storica e politica». La parabola geopolitica ucraina, dalle vertigini dell’indipendenza agli abissi della guerra, è stata condizionata fin dall’inizio da direttrici in larga parte «esterne» al paese, comparendo nei piani americani di allargamento della Nato sin dal 1993, pur essendo l’Ucraina geostoricamente prossima alla Russia, di cui per secoli aveva fatto organicamente parte (prima sotto l’impero zarista, poi sotto quello sovietico). Fin dalla sua indipendenza, dunque, essa è stata un campo attraversato da fortissime tensioni geopolitiche, che hanno inciso profondamente sulle sue dinamiche interne. Che da ultimo hanno portato alla guerra scoppiata il 24 febbraio 2022, esito finale della maturazione dello scontro geopolitico tra America e Russia. Di cui l’Ucraina, «terra di frontiera», è diventata per volontà dell’Occidente – e complicità della classe dirigente locale – «terreno di scontro».

Con la sostituzione della classe dirigente del paese orchestrata da Washington («fuck the Eu!» dirà la vice di Kerry, Victoria Nuland, intercettata mentre stabilisce al telefono la composizione del nuovo governo post-Janukovyč 48) e con la trasformazione della Russia in avversario fisso, il sistema europeo perse nel 2014 il suo ultimo elemento di flessibilità, irrigidendo lo scontro in Europa tra due blocchi frontalmente contrapposti 49. Trasformando l’«identità» ucraina in principio di alterità e contrapposizione, anziché di tolleranza e apertura (come aveva suggerito Bush nel 1991) 50. E avviando così il processo di disintegrazione del paese, con le proclamazioni di indipendenza delle regioni orientali e della Crimea, annessa poi alla Russia, e la guerra civile tra ucraini filorussi e ucraini filo-occidentali, costata secondo i dati delle Nazioni Unite oltre 14 mila morti tra 2014 e 2021 51. All’epoca Kissinger ammonì (Washington, prima che Kiev) che «se il destino dell’Ucraina è sopravvivere e prosperare, essa non può diventare l’avamposto militare dell’uno o dell’altro schieramento, ma deve invece trasformarsi in un ponte capace di unire, e non in un fossato creato per dividere. (…) Considerare l’Ucraina come parte del confronto Est-Ovest, spingendola a far parte della Nato, equivarrebbe ad affossare per decenni ogni prospettiva d’integrare la Russia e l’Occidente, e in particolare la Russia e l’Europa, in un sistema di cooperazione internazionale». Parole nel vuoto, avrebbe detto Adolf Loos, poiché l’intensità delle pressioni americane non si è fermata, anzi è cresciuta appellandosi pateticamente e irresponsabilmente al principio della «porta aperta», anche di fronte all’evidente rafforzamento della postura geopolitica della Russia di Putin, decisa ad arrestare la parabola verso l’irrilevanza strategica a cui Washington immaginava di poterla unilateralmente relegare. Rendendo non solo prevedibile, ma inevitabile il conflitto, largamente previsto da autorevoli politologi americani, tra cui lo stesso Kissinger (2014), Mearsheimer (2014) e Merry (2017).

13. Di fronte alla sorda insensibilità dell’Occidente per le ragioni della geopolitica, la classe dirigente russa ha reagito nel 2022 attaccando militarmente l’Ucraina, considerando tale azione extrema ratio per fermare un processo geopolitico ritenuto esiziale per la propria sopravvivenza e per il ruolo della Russia. Riaffermando disperatamente nell’attacco una vivacità storica che, pur nei limiti emersi durante la campagna militare ucraina, ha comunque ribaltato una passività geopolitica che aveva preservato per inerzia il mito della sua superpotenza. Potendo comunque disporre di risorse umane e militari imparagonabili a quelle ucraine, rendendo tutt’altro che scritto l’esito del conflitto, nonostante l’ininterrotta fornitura di armi da parte dalla Nato e dagli «alleati».

L’Occidente, ancora una volta, sperimenta così le contraddizioni che scaturiscono dalla sistematica disapplicazione delle regole elementari della geopolitica, di cui l’America non pratica la grammatica e di cui gli europei hanno dimenticato la prassi. Ma una strategia che si traduce inesorabilmente in azioni inconcludenti e contraddittorie rispetto ai propri stessi presupposti appare alla lunga destinata a scalfire, e in prospettiva a sgretolare, la scintillante teca dell’egemonia. È difficile, del resto, mantenere la convinzione della superiorità dei propri valori, sui quali poggia l’identità di una collettività come di un individuo, se la loro attuazione produce conseguenze che li contraddicono, traducendosi sistematicamente nel proprio opposto (pace in guerra, stabilità in disordine, prosperità in miseria), rivelandosi meri slogan propagandistici.

Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero ricordare che «ogni regno diviso contro sé stesso va in rovina, e ogni città o casa divisa contro sé stessa non potrà reggere». L’Europa (o impero europeo dell’America) non si riduce all’Occidente inteso come un granitico blocco identitario. Al contrario, l’Europa è un continuum culturale, storico e geografico che racchiude una molteplicità di identità, lingue e tradizioni (motivo per cui non esiste un demos europeo o l’europeitas 52); identità riconducibili, a un elevato livello di astrazione, a tre elementi fondamentali: neolatino, germanico e slavo, che a loro volta si riflettono nelle tre grandi espressioni evolutive del cristianesimo: cattolica, protestante e ortodossa 53. Il tentativo della potenza americana di isolare e sradicare la Russia da questo prodigioso mondo storico-culturale, di cui fanno parte anche l’Ucraina e la sua complessa identità etnico-culturale (specchio perfetto del multiforme tessuto culturale del nostro continente), potrà forse impedire il risorgere di un’autentica autocoscienza e potenza europea, ma è destinato inesorabilmente a indebolire l’Occidente proprio nel momento in cui esso è chiamato a misurarsi con l’ascesa di potenze culturalmente e storicamente «estranee» – a differenza della Russia – alla società internazionale europea. L’applicazione di un modo astratto di esercitare il potere sulla storia è il tarlo che corrode da dentro l’egemonia americana, generando divisione e disordine al posto della stabilità e della pace, povertà anziché prosperità.

Prima però che la guerra in corso trascenda i limiti di un confitto per (semi)procura fra superpotenze, generando conseguenze irreversibili per l’Europa, le élite degli Stati Uniti e dell’Ue dovrebbero avere il coraggio di fare i conti con le cause «strutturali» del conflitto, tentando di porvi rimedio, invece di procedere allegramente verso l’abisso in nome del diritto e di assolutismi morali: esercizio stucchevole da parte di chi rappresenta un’alleanza di Stati non certo esenti da sanguinose e controverse (in molti casi fallimentari) iniziative militari (Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, solo per citare le più recenti). La demonizzazione a oltranza della Russia – oltre a non essere una politica, ma l’alibi per non averne una – non porrà fine alla guerra, ma la aggraverà. Il conflitto in Europa dimostra che la geopolitica (e dunque la necessità della coesistenza tra entità statuali e culturali diverse) non è una scelta: è una realtà che i leader occidentali possono ignorare solo a spese dei loro popoli. La questione ucraina dovrebbe trovare soluzione fuori dall’astrattezza giuridica dell’autodeterminazione, spesso strumento del divide et impera (vedi alla voce Mitteleuropa) più che espressione di genuino amore per i popoli. Ricordando agli ucraini che l’ordine internazionale – ovvero la stabilità e la pace – sono la condizione stessa per il perseguimento di tutti gli altri valori: «Se non è garantito un livello minimo di sicurezza, gli scopi della giustizia politica, sociale ed economica non possono avere alcun significato» 54. Motivo per cui l’ordine (e la sua ricerca) nella politica mondiale non solo è degno di valore, ma è «prioritario» rispetto ad altri scopi, come quello della «giustizia» o dell’autodeterminazione, con buona pace delle anime belle (e vuote) che propugnano l’etica dell’irresponsabilità.

Proseguendo sulla via della contrapposizione ideologica e dell’escalation militare, il risultato non potrà che condurre l’Europa nell’abisso in cui la sua classe dirigente ripeteva di non voler mai più precipitare, edificando «l’Europa unita» per creare la pace, salvo poi fare la guerra in nome dell’idea di nazione. A quali latitudini l’attuale conflitto ci condurrà, dunque, dipenderà anche dalla lungimiranza e dalla saggezza delle classi dirigenti europee, posto che sappiano dimostrarsi capaci di discostarsi dalla semplificazione ideologica sulla quale si fonda l’attuale strategia di dominio unipolare a stelle e strisce. Un’Europa appiattita sull’interpretazione solipsistica dell’egemonia americana e accecata dal conformismo ideologico rappresenterebbe il rovesciamento di una delle etimologie del suo stesso nome: essere «terra dall’ampio sguardo». Come scriveva Otto Hintze in un saggio del 1916, «non vogliamo la desolante supremazia mondiale di un popolo, ma una convivenza piena di vita di popoli e Stati liberi. (…) L’ideale che ci prospettiamo per il futuro è un sistema di potenze mondiali che si riconoscono e si rispettano vicendevolmente, come facevano prima le grandi potenze del concerto europeo» 55.

Note:

1. «NATO’s ongoing enlargement process poses no threat to any country. It is aimed at promoting stability and cooperation, at building a Europe whole and free, united in peace, democracy, and common values», Nato.int, 6/7/2022.

2. D. Polansky, L’impero che non c’è. Geopolitica degli Stati Uniti d’America, Milano 2005, Guerini e Associati, p. 219.

3. C. Schmitt, La tirannia dei valori, Milano 2008, Adelphi, p. 51. Le sconclusionate avventure occidentali in Medio e Vicino Oriente, che hanno lasciato dietro di sé distruzione e morte, non certo stabilità e pace, né tantomeno giustizia e democrazia, dovrebbero averci messo in guardia dai pericoli di applicare alla geopolitica categorie morali assolute.

4. Il principio di autodeterminazione dei popoli è un concetto limite, che va maneggiato con cura. Imposto semplicisticamente da Wilson all’Europa dopo la prima guerra mondiale, esso ha destabilizzato il continente, smembrando imperi multietnici ed evocando le devastanti forze che avrebbero condotto alla seconda guerra mondiale.

5. Cfr. G.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari 1999, Laterza, § 124 (aggiunta), p. 320.

6. La massima greca (Strabone) secondo cui «la geografia è un destino», motivo per cui la storia non si può fare a tavolino, coglie dunque un aspetto del vero. Per dirla con Napoleone, «la storia di un popolo risiede nella sua geografia». Cfr. T. Marshall, Prisoners of Geography: Ten Maps That Tell You Everything You Need to Know About Global Politics, New York 2016, Scribner.

7. Questa in nuce l’acquisizione fondamentale emersa dalla pace di Vestfalia e lo scopo della ricerca dell’equilibrio di potere, il cui fine primario è anzitutto la preservazione del sistema di Stati, garantendo la coesistenza di entità sovrane.

8. Sforzo cui è esentato chi, ricorrendo al potere semplificatorio dell’ideologia, si assolve dall’esercizio del logos (ovvero dalla fatica del concetto).

9. J.M. Goldgeier, «A complex man with a simple idea», in M. Kimmage, M. Rojansky (a cura di), A Kennan for our times: Revisiting America’s Greatest 20th Century Diplomat in the 21st Century, Kennan Institute, Washington 2009, Wilson Center, p. 28.

10. G.H.W. Bush, B. Scowcroft, A World Transformed, Vintage, 1999, citato in A. de’ Robertis, «La Nato e la sfida della Russia», Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, n. 8/2015, p. 66.

11. H. Kissinger, «Reversing Yalta», The Washington Post, 16/4/1989.

12. Cfr. A. de’ Robertis, «La Nato e la sfida della Russia», Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, n. 8/2015, p. 67.

13. H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano 2015, Mondadori 2015. Si veda ad esempio cosa disse Baker a Gorbačëv durante il loro incontro a Mosca nel febbraio del 1990: «Neither the President nor I intend to extract any unilateral advantages from the processes that are taking place».

14. «If we maintain a presence in a Germany that is a part of NATO, there would be no extension of NATO’s jurisdiction for forces of NATO one inch to the east». Così si legge, inter alia, nel Memorandum della conversazione tra Gorbačëv e Baker del 9 febbraio del 1990, recentemente declassificato dal dipartimento di Stato Usa: Memorandum of conversation between Mikhail Gorbachev and James Baker in Moscow, February 9, 1990. Analoga formulazione si legge nella trascrizione sovietica dello stesso incontro: bit.ly/3lxSLmA

15. Il 12 dicembre 2017 il National Security Archive presso la George Washington University ha declassificato e pubblicato 30 documenti statunitensi, sovietici, tedeschi, britannici e francesi che rivelano le assicurazioni relative alla sicurezza sovietica e al non allargamento a est della Nato fornite dai leader occidentali a Gorbačëv (e altri funzionari sovietici) durante il processo di unificazione tedesca, tra il 1990 e il 1991, bit.ly/2N7t2KO

16. A. Puškov, Da Gorbačëv a Putin. Geopolitica della Russia, Milano 2022, Sandro Teti Editore, p. 36.

17. Ivi, p. 37. Benché del commento del ministro sovietico, che assistette all’incontro, non vi sia traccia nei documenti disponibili , si può comunque notare dalle trascrizioni americane e sovietiche (si prenda ad esempio quella del 9 febbraio 1990) come le risposte di Gorbačëv alle reiterate proposte di Baker di non espansione della Nato siano per lo più sbrigative e superficiali («Condivido la tua linea di pensiero», «L’approccio che hai delineato è altamente plausibile»), senza mai ribattere alludendo alla stipula di qualche forma di garanzia o accordo scritto.

18. A de’ Robertis, «Il ruolo di stabilizzazione della Nato dai Balcani ai confini dell’Europa», in M. De leonardis , G. Pastori (a cura di), Le nuove sfide per la forza militare e la diplomazia. Il ruolo della Nato, Milano 2014, Monguzzi, pp. 168-70.

19. Avrebbe dovuto sapere che, fra Stati, i rapporti di forza contano molto più delle dichiarazioni di principio e che compiere passi unilaterali in favore dell’avversario in nome delle buone intenzioni può far guadagnare riconoscimenti morali e perfino simpatie personali, ma a costo di far scivolare il proprio paese nella spirale dell’impotenza.

20. La registrazione del discorso è disponibile all’indirizzo: bit.ly/3Xq1Nzh

21. La violazione sistematica della grammatica della potenza era stata la cifra della parabola politica di Gorbačëv, che aveva condotto l’Unione Sovietica sulla tragica strada dell’auto-toglimento non dialettico.

22. 1992 Defence Planning Guidance, Department of Defense for Fiscal Year 1994-1999, 16/4/1992, p. 15.

23. C. Krauthammer, «The Unipolar Moment», Foreign Affairs, vol. 70, n. 1, 1990-91, pp. 23-33.

24. R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Milano 2008, Mondadori, p. 97. «La storia dell’America, al di là di ogni mito isolazionista, è una storia di espansione territoriale e di influenza tutt’altro che inconsapevoli. L’ambizione a svolgere un ruolo da protagonista sulla scena mondiale è profondamente radicata nel carattere americano», ibidem.

25. Cfr. 1992 Defence Planning Guidance, cit.

26. Per usare le parole di Baker: «The mechanism by which we have a US military presence in Europe is NATO. If you abolish NATO, there will be no more US presence», Memorandum of conversation between Mikhail Gorbachev and James Baker in Moscow, cit., p. 6.

27. J.L. Gaddis, Surprise, Security, and the American Experience, Cambridge MA 2004, Harvard University Press, p. 77.

28. Memo declassificato del dipartimento di Stato Usa, «Strategy for NATO’s Expansion and Transformation», 7/9/1993, bit.ly/3Z0XRWX

29. «Il nostro scopo primario deve essere espandere e rafforzare la comunità mondiale delle democrazie basate sul mercato», «Confronting the Challenges of a Broader World», discorso di Clinton all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 27/9/1993, in Department of State Dispatch, IV, 39, 27/9/1997.

30. Cfr. D. Polansky, op. cit.; S. Wertheim, Tomorrow, the World: The Birth of U.S. Global Supremacy, Cambridge MA 2020, Harvard University Press.

31. J,M. Goldgeier, «The U.S. Decision to Enlarge NATO», Brookings Review, Summer 1999, p. 19.

32. M. Albright, Madam Secretary: A Memoir, New York City 2005, Miramax p. 324.

33. Your October 21-23 visit to Moscow – Key foreign policy issues, U.S. Department of State, 20/10/1993, p. 4, bit.ly/3xdusg8. Nelle sue memorie, Christopher affermerà più tardi che El’cin fraintese – «forse perché ubriaco» – che lo strumento della Partnership per la Pace (un programma di cooperazione militare concepito nell’ottobre del 1993 come compromesso risultante dalle divergenze tra il Pentagono e l’amministrazione Clinton su come rispondere alle richieste dei paesi del Centro e dell’Est Europa di aderire all’Alleanza) non era alternativo, ma precursore dell’espansione della Nato, come Clinton confermerà ai leader di Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Slovacchia in occasione del suo viaggio a Praga, nel gennaio del 1994 («The question is no longer whether Nato will take on new members, but when and how»).

34. G.F. Kennan, «A Fateful Error», The New York Times, 5/2/1997. Naturalmente, ricordava, «i russi non avrebbero altra scelta che accettare l’espansione come un fatto militare compiuto». E come tale essi infatti lo inquadrarono, benché il loro dissenso non avesse allora la forza per impedirne l’accadimento.

35. Tanto che durante il suo incontro con i sostenitori di El’cin, prima delle elezioni russe del giugno 1991, il segretario generale della Nato, Manfred Wörner, dovette assicurare che non sarebbe avvenuta alcuna espansione dell’Alleanza. Cfr. NATO Expansion: What Yeltsin Heard, National Security Archive.

36. Lettera del 15 settembre del presidente El’cin al presidente Clinton, corsivo nostro.

37. Lettera del presidente El’cin al presidente Clinton, 29/11/1994.

38. «Yeltsin Says NATO Is Trying to Split Continent Again», The New York Times, 6/12/1994.

39. Fr. December 21 1994 – NAC: Guidance for Discussion of the Vice President’s Visit to Russia, U.S. Department of State, bit.ly/3lkjL8K. Dai documenti declassificati russi degli anni Novanta, inclusi quelli delle sessioni a porte chiuse della Duma, si evince come le ragioni russe dell’opposizione all’espansione della Nato vertessero su tre preoccupazioni fondamentali: che l’espansione minacciasse la sicurezza russa; che minasse l’ideale di una sicurezza europea inclusiva; e infine che tracciasse una nuova linea divisoria in Europa.

40. Summary report on One-on-One meeting between Presidents Clinton and Yeltsin, Kremlin, May 10, 1995.

41. E. Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Soveria Mannelli 2015, Rubbettino, p. 18.

42. M. De Leonardis, «Da Erodoto a Kissinger: l’eredità della storia e il peso della geopolitica», p. 15, in G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Roma 2021, Carocci.

43. R. Kagan, op. cit., p. 98.

44. L’aggressività è intrinseca alla struttura tetico-ponente del valore (sostenere un valore vuol dire farlo valere, cioè imporlo, dando vita a una guerra tra visioni del mondo che travolge, per definizione, ogni valore).

45. Politica racchiusa nella battuta «Vogliamo andare verso l’Ovest, ma il modo migliore di farlo è con il gas dell’Est». All’Onu, nel settembre del 2013, Janukovyč ribadì che le «aspirazioni europeiste dell’Ucraina sono il pilastro dello sviluppo del nostro paese» insistendo però sulla prospettiva trilaterale dei rapporti tra Ucraina, Ue e Russia. «L’Ucraina è un ponte tra Russia e Ue, ed è molto importante assicurare che questo ponte rimanga saldo e affidabile. Il dialogo tra Ucraina, Russia e Ue sulle questioni commerciali è possibile nel prossimo futuro», «Between two stools: Ukraine says EU trade deal certain, Russia – led union also an option», Reuters, 25/9/2013.

46. G. Colonna, Ucraina tra Russia e Occidente. Un’identità contesa, Milano 2022, Edilibri, p. 84.

47. L’Ucraina (che nella sua configurazione unitaria ha cessato di esistere il 24 febbraio 2022) è notoriamente una terra dalla storia complessa, in cui convivono popolazioni vissute per secoli (dal XVIII secolo fino al 1918) sotto l’impero austro-ungarico (Leopoli e la Galizia) e altre sotto gli zar (le regioni orientali, meridionali, la Crimea e Kiev). Cfr. H. Kissinger, «To settle the Ukraine crisis, start at the end», The Washington Post, 5/3/2014.

48. «Leaked audio reveals embarrassing U.S. exchange on Ukraine, EU», Reuters, 7/2/2014. Victoria Nuland è la moglie di Robert Kagan, teorico neocon che ha teorizzato il destino manifesto degli Usa a espandersi nel mondo.

49. E. Di Rienzo, op. cit., p. 31. Internamente, infatti, la classe dirigente post-Majdan si dedicava internamente a una spensierata opera di pulizia culturale e linguistica, perseguendo oltre all’obiettivo di ingresso nella Nato (che Zelens’kyj nel 2019 inserì in costituzione, nonostante l’ampia opposizione popolare), quello di una forzata politica di omogeneizzazione (vietando quindi l’uso e l’insegnamento del russo nelle scuole). Una politica che alla vigilia della guerra aveva portato la popolarità di Zelens’kyj, eletto per ricucire i rapporti con la Russia, ai minimi storici.

50. Ibidem.

51. H. Kissinger, «To settle the Ukraine crisis», cit.; J. Mearsheimer, «Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault», Foreign Affairs, settembre-ottobre 2014; R. Merry, «The Demonization of Putin by American Intelligentsia», The National Interest, settembre-ottobre 2017.

52. J. Florio, «L’ombra di un sogno. Perché l’europeismo è antieuropeo» Limes, «Il muro portante», n. 10/2019.

53. Cfr. l’eccellente studio di G. Colonna, op. cit., in particolare pp. 125-133.

54. H. Bull, «La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale», Vita e Pensiero, 2005, p. 114.

55. O. Hintze, Deutschland und der Weltkrieg, Leipzig-Berlin 1916, Teubner, cit. in D. Groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa. Saggio sulla storia intellettuale d’Europa, Torino 1980, Einaudi, p. 382.

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Si, articolo lungo ma abbastanza rapidamente letto per una certa sua diffusa prevedibilità contenutistica. Infatti si potrebbe dire ottimisticamente rispetto le consapevolezze espresse sul tema: meglio tardi che mai, a distanza di almeno un anno e alla faccia di una credibilità (e prevedibilità) scientifica della dottrina geopolitica; ora speriamo che la situazione migliori! 

Però siccome a pensarci male si azzecca più che ‘talvolta’ e proprio esprimendosi a proposito degli effettivi primi protagonisti dell’attuale cronaca di guerra, vorrei essere invece provocatoriamente ingeneroso: articolo lungo e con pretese saggistiche per apparire importante, ma fin troppo scontato e ripetitivo nella sua ideologiche tesi di fondo, per poi, non trattare e dunque tacere o far sottovalutare il vero nocciolo delle questioni in gioco. Che non è astrattamente ‘geopolitico’, bensì di economica e dunque finanziaria gestione neo-coloniale delle risorse locali e mondiali. 

Insomma una lettura ‘geopolitica’ della natura dei conflitti internazionali del tutto deprivata della categoria economica diventa una storiella per imbonire il lettore e infantilizzarlo. Certamente può colpire l’aspetto della denunzia degli errori occidentali e anglosassoni in particolare. Ma oramai, dopo l’annuale menzognero bombardamento mediatico, sono in tanti i cittadini europei che hanno ‘mangiato la foglia: qui non si tratta più di distinguere tra popoli e rispettivi governanti in quanto … buoni gli uni o cattivi gli altri! E appresso appioppare potenziali di bontà ai cattivi e di cattiveria ai buoni per dare un senso definitivo ai fatti: buono ma ingenuo Gorbacev e un po’ coglione Yeltsin, e invece cattivone Putin che invertendo il trend negativo ha dismesso l’ingenuità onorevole del più generoso predecessore (quindi per essere buono Putin doveva continuare a fare il buono, se non il coglione, continuando a fidarsi di quelle serpi dei suoi interlocutori USA?); buono il Bush padre (del Bush figlio, certificato criminale di guerra in Iraq) e cattivone Clinton (allora descritto dagli eccellenti media occidentali solo come un bonaccione e innocuo ‘appassionato di ragazzine pompinare’) per avere interrotto l’epocale processo di distensione, e solo per una sua cattiva interpretazione dell’evoluzione politica da allora ai giorni nostri … 

E varie altre amenità di tatticismo ideologico, probabilmente qui raccontate ad abundantiam al solo fine di distrarre dalle questioni più reali e così superare l’impasse di credibilità del momento: inquadrandone recuperi magari utili a correzioni di strategia politico-militare e a correlati trasformismi politico-ideologici. La verità ‘geopolitica’ di fondo (ammesso che di approccio scientifico si tratti e non di mascheramenti ideologici) si avrà solo quando verranno ben distinti dai protagonisti politici, e dai popoli rispettivamente rappresentati, gli interessi vincolanti delle oligarchie economico-finanziarie che li indirizzano nella loro pretesa di governare il mondo, usando come loro teste di legno proprio quei governanti (quale fondativo e autonomo potere può avere un governante che duri quattro o al massimo otto anni?). E così non si andrà più avanti per tatticismi ideologici nell’interpretazione degli interessi in gioco. Bensì per brutali considerazioni di pura realtà di dominatori e di dominati. 

Così qui, più concretamente, sembra che l’unico scopo della lunga tiritera sia anche di distrarre il pericolo russo verso quello russo-cinese e il loro professato multipolarismo politico-economico. E quindi più ancora contrastare con l’ennesima finzione dialettica la crescente tendenza autolesionistica dell’occidente atlantista: del ‘miliardo d’oro’ oramai sempre più isolato a livello mondiale e a concreto rischio di dissoluzione civile nella nazione guida. E in effetti proprio oggi i media mostrano l’ennesima rappresentazione del germe autodistruttivo della violenza, insito nella storia USA, tanto nella cronaca interna come in quella estera, con la strage folle di adolescenti ad opera di un adolescente armato e l’ennesima ipocrisia impotente, che ne consegue, di quel popolo e delle autorità che ben lo rappresentano, impossibilitate a risolvere una questione drammatica come quella del commercio intensivo delle armi. Una realtà connaturata allo stesso fallimento del ‘sogno americano’, che si dispone simbolicamente come la sintesi più disfunzionale di individualismo e nazionalismo estremi: psicopatologie sociali rese funzionali solo al dominio di un’élite ristretta, pronta a tutto pur di mantenere i propri sempre più insostenibili privilegi! 

Il complottismo rivelatorio della seguente intervista di un acuto analista finanziario – questo si veramente scomodo – “mette invece il dito sulla piaga”; ché rendendo conto delle risorse e dei vari flussi economici che dall’Europa affluiscono alle dette casse private USA (non a quelle pubbliche che invece si immiseriscono sempre più) risponde allora molto meglio alla domanda retorica che Giovanni Falcone poneva all’autorità inquirente per meglio svolgere il suo attivismo indagatorio: “per capire come si muove il grande crimine bisogna innanzitutto seguirne i flussi di denaro…”:

Certamente parlava di Cosa Nostra e delle sue connessioni coi settori deviati dello stato, ma con le consapevolezze odierne avrebbe oggi potuto riferirsi anche alle attività criminose dei più grandi intoccabili della storia mondiale. Bisogna essere complottisti per sapere di chi si tratta? Ebbene chi ha più guadagnato economicamente dalle guerre in corso e da quelle effettuate in passato e pure arrivando a perderle? Ma sempre vincendo perché se le battaglie militari le perdeva quel popolo era invece la sua elite occulta responsabile della regia di governo a vincere ‘sempre’ quanto di proprio effettivo interesse economico-finanziario.

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Quest’articolo di un accademico ordinario di sociologia senza tanti arzigogoli e trappole concettuali la dice ben più chiara sulla questione politologica e senza le più salienti omissioni del precedente:

Democrazia, parola fatata. In festa tra Presa della Bastiglia e Crollo del Muro

Polittico, con stella e convitato di pietra

di Gaspare Nevola

«Non pensate quello che io so che state pensando… Io lo so che state pensando…
Se vi ho adunato qua, c’è una ragione…
Eh… la democrazia… La democrazia…
Questa parola, questa parola fatata…
Questa parola di luce… questa parola alluminata…
Questo lampadario di parola
Che il mondo dice…
Uomini con tanto di barba che parlano di questa democrazia…
Cos’è? Eh… Cos’è questa democrazia?
Questa democrazia, dice…
No… non è vero… Sì… dice…
Eh, io capisco… voi adesso dite, adesso tu perché sei… e noi siamo… sai
Eh no, cari amici (etc.)»


(Peppino de Filippo, I casi sono due. Scena: “La democrazia”. Autore: Armando Curcio. Portata in teatro da Peppino de Filippo dal 1945. Edizione televisiva del 1959)

PANNELLO I

Il 1989 e il “crollo” del Muro di Berlino sono simboli del nostro tempo. Simboli di una trasformazione del mondo e di una modernità politica incerta e disorientata. Il 1989 e il “crollo del Muro” sono eventi che, invero, si inscrivono in un lungo processo storico e nei suoi effetti, i quali hanno disegnato il mondo in cui viviamo. Sebbene la cultura politica dominante fatichi tutt’ora a coglierne significato e portata politica, con le debite proporzioni il 1989 richiama un’altra data simbolica che solitamente ci viene alla mente quando pensiamo alla politica nelle società moderne-contemporanee: una data giusto di due secoli più vecchia, il 1789 della Rivoluzione francese e della travagliata nascita della “democrazia dei moderni” –-quella rivoluzione alla luce della quale (nel bene e nel male) definiamo le democrazie contemporanee come “liberal-democrazie costituzionali rappresentative di massa”.

Ma richiama anche l’attenzione su quanta acqua è passata sotto il ponte della politica.

Gli effetti del 1989 hanno cambiato il volto politico dell’Occidente e dell’Europa. Possiamo distinguerli analiticamente in due principali macro-categorie (peraltro fittamente interconnesse): da un lato, effetti generali, di portata “globale”, in ambito internazionale ed europeo; dall’altro, effetti specifici all’interno dei singoli Stati, relativi alla politica e alla democrazia e molto profondi per la Repubblica italiana, che ne risente da subito nel modo più evidente e clamoroso, data la presenza del PCI: il partito comunista più forte di consenso elettorale e di legittimazione storica operante in Europa occidentale, una forza politica ed ideologica di primo piano dell’“arco costituzionale” repubblicano e della democrazia antifascista italiana[1] .

Effetti generali del 1989. Sono quelli che hanno inciso sulla politica a livello globale e un po’ in tutti i Paesi europei, sebbene secondo le peculiarità dei diversi casi: fine del mondo e delle ideologie bipolari del Novecento (“mondo libero delle democrazie occidentali” versus “mondo totalitario delle dittature sovietiche”); affermarsi della centralità di nuovi orientamenti contrapposti (globalismo ed europeismo vs. comunitarismo territoriale e neonazionalismo o sovranismo); accelerazione dell’integrazione e dell’allargamento dell’Unione Europea e, in reazione, crescita di sentimenti nazionali o di scetticismo e delusione verso il progetto europeistico[2]; accelerazione dell’integrazione e dell’allargamento internazionale/transnazionale/sovranazionale dei mercati e delle istituzioni globali-occidentali americanocentriche, di tipo finanziario (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio), ma anche di tipo militare (come nel caso saliente della Nato); indebolimento dello Stato come fonte primaria di autorità e di diritto, come regolatore dell’economia e del welfare[3]; profonda trasformazione della democrazia, dei suoi equilibri istituzionali e della sua cultura politica (ideali e sentimenti politici inclusi)[4]; incremento dei flussi migratori verso e dentro l’Europa e politicizzazione della questione migratoria.

Effetti specifici del1989. Sono quelli che si sono manifestati in particolare in Italia. Tra questi, ad esempio, un’accelerazione dell’appannamento della cultura antifascista e il diffondersi di spinte critiche o “revisioniste” che hanno finito per logorare l’antifascismo come “mito fondatore” della Repubblica italiana nata nel secondo dopoguerra[5]. Ma gli effetti che più direttamente hanno scosso la politica in Italia sono stati quelli riguardanti i partiti. Più precisamente, la “destrutturazione” del sistema dei partiti ha messo in crisi e trasformato la democrazia italiana, portando al tramonto della “Prima Repubblica”. A partire dal voto del 1992 (anche come conseguenza combinata con le inchieste giudiziarie e il clamore pubblico di Mani Pulite) registriamo risultati elettorali inattesi, veri apristrada della tanto agognata alternanza di governo. Con i risultati delle elezioni del 1994, per la prima volta nella storia repubblicana vanno al governo partiti non appartenenti allo storico “arco costituzionale” antifascista: partiti nuovi (Forza Italia, Lega Nord) o deliberatamente esclusi dall’arco costituzionale (il neo- o post-fascista MSI, trasformatosi in Alleanza Nazionale), e talora persino sostenitori della rottura dell’unità nazionale (la Lega secessionista di Bossi). In questa congiuntura, inoltre, i partiti storici mutano profondamente la loro identità politica e forma organizzativa, e nel volgere di pochi anni cambiano più volte anche nome, con ripetute scissioni e ricomposizioni (DC, PCI); altri partiti escono praticamente dalla scena politica (primo tra tutti il PSI, ma anche PSDI, PRI, PLI) e vedono il grosso del loro ceto politico e seguito elettorale ricollocarsi dentro i partiti sopravvissuti o comparsi in quegli anni. A tutto questo si associa un progressivo ricambio della classe politica e un grande successo politico “uomini nuovi” (per tutti: Silvio Berlusconi, ma anche lo stesso Umberto Bossi), così come l’emergere un nuovo e decisivo ruolo politico dei presidenti della Repubblica (segnatamente da Oscar Luigi Scalfaro in poi).

Tutti questi mutamenti della politica italiana trovano una sintesi impressionante nel fatto che già alle elezioni del 1994 i partiti dell’arco costituzionale (ridenominati o meno nel corso degli anni, o i loro eredi) nell’insieme non arrivano a raccogliere nemmeno la metà del consenso elettorale (45% dei voti espressi), mentre in precedenza avevano raccolto sempre oltre l’80% del consenso elettorale, talora oltre il 90% (eccezion fatta per le elezioni del 1992, che costituiscono la prima avvisaglia del cambiamento politico-elettorale del post-1989). Detto per inciso, i risultati del 1994 avevano come base popolare un’affluenza alle urne che superava l’80% degli aventi diritto: un percentuale in calo rispetto a quella dei precedenti decenni repubblicani (quando si arrivava a superare il 90%), ma ben superiore ai tassi calanti che seguiranno e che arriveranno al 64% avutosi alle elezioni del 2022.–

VIDEO

La democrazia (Peppino de Filippo)

PANNELLO II

Ma l’effetto forse più palpabile della “caduta” del Muro di Berlino sulla politica e sulle società europeo-occidentali è stato di aver sollecitato il protagonismo di una “società civile” da tempo sopita (dove più dove meno). Pure su questo versante l’Italia si rivela apripista di un fenomeno che nel corso di pochi anni interesserà anche gli altri Paesi europei. In altri termini, nella congiuntura storica dell’immediato post-1989 emerge la “democrazia dei cittadini” contro la “democrazia dei partiti”, una tendenza che viene pubblicamente e mediaticamente osannata. Nasce la “democrazia del pubblico”[6], dove prende forma un’esasperata personalizzazione e leaderizzazione della politica, e una fragilizzazione dei partiti come corpi intermedi. È il portato di una trasformazione della democrazia che si accompagnerà, come oggi risulta più evidente, da un lato, all’appannamento della tradizionale distinzione tra destra e sinistra, dall’altro, all’emergere di quelli che nel linguaggio corrente sono definiti i populismi (o neo-populismi). Le tendenze “populiste” già allora rimandavano a istanze e a forze politiche trasversali rispetto all’asse ideologico destra/sinistra, caratterizzandosi per un’energia politica di sapore anti-sistema – e che all’epoca, diversamente da oggi, l’opinione pubblica dominante e le scienze socio-politiche qualificano come fenomeni di rinascita democratica e non già di regressione democratica. Del resto, non dimentichiamolo, lo slogan che nella Germania del crollo del Muro e della “rivoluzione democratica” guidava le mobilitazioni contro il regime sovietico era “Wir sind das Volk” (Noi siamo il popolo). Ma quella che nel 1989 esplode a Berlino e scuote la scena politica di numerosi Paesi est-europei è (ed era) codificabile dentro lo schema politica anti-sistema contro politica pro-sistema. E non sfugga che anche in quella congiuntura storica la politica pro-sistema si pone a difesa dell’ordine costituito (nella fattispecie l’ordine sovietico): un ordine che sarà travolto. Ed era una politica anti-sistema pure quella che in Italia si mobilita contro la “repubblica dei partiti”, contro la “partitocrazia”, con l’aperto sostegno del PCI-che-diventa-PDS-e-che-diventerà-DS-e-infine-PDS.

Nel “mondo nuovo del post-1989”, la dialettica radicata nella storia tra politica pro-sistema e anti-sistema (riaggiornata ai tempi) è un seme gettato in terre d’Europa e che le popolerà di alberi. Questo rifacimento della politica racchiude “un’altra faccia” della caduta del Muro: una faccia che all’epoca sfugge ai più; una faccia che non viene in luce nemmeno nelle celebrazioni nel corso dei decenni degli anniversari del 1989. Questa faccia del rivolgimento del 1989 fa da subito dell’Italia, come già rilevato, l’apristrada di trasformazioni che non tarderanno a interessare un po’ tutti i Paesi europei, con tanto di frammentazione dei loro sistemi partitici.

PANNELLO III

In Italia, con la caduta del Muro di Berlino viene travolto l’universo politico-identitario comunista, storicamente legato all’URSS. Ma vengono altresì travolti i rifermenti ideali e valoriali del socialismo europeo-occidentale e sepolto per sempre il laboratorio di quell’“euro-comunismo” di cui il PCI è forza trainante occidentale. Tuttavia, la tempesta investe pure l’universo identitario democristiano, i suoi correlati politici, l’atlantismo e il legame privilegiato con gli Stati Uniti: del resto, il successo e la tenuta nel tempo dell’universo democristiano erano alimentati non poco dal fatto di rappresentarsi come l’argine contro la “minaccia comunista”. All’indomani del crollo del Muro e della fine dell’impero sovietico accade però che gli Stati Uniti non considereranno più l’Europa (soprattutto quella “occidentale”) e l’Italia come tessere cruciali nello scacchiere geo-strategico e geo-ideologico internazionale, almeno fino a quando la “crisi ucraino-russa” non diventerà catalizzatrice di una crisi internazionale, rieditando schemi da “guerra fredda” alimentati dalle strategie di allargamento dei confini politici della Nato verso l’est europeo e verso la Russia nonché dalle reazioni di Mosca: una guerra fredda che in ultimo si è fatta anche “calda”.

Come conseguenza del mutato del quadro geo-ideologico, geo-economico e geo-politico associato al “terremoto 1989”, nei regimi liberali-democratici occidentali (e non solo in Italia) si acuisce lo sfibramento anche della distinzione politica destra-sinistra come fattore di identità collettive, tanto da diventare difficile da riconoscere. I partiti e le culture politiche diventano dei patchwork identitari. In Italia persino la ben radicata distinzione tra cattolici e laici si assottiglia fino a perdere la sua espressione politica-partitica (DC). Su gran parte dei cittadini cala la nebbia del disorientamento ideologico e della mancanza di saldi punti di riferimento ideale e valoriale: tramontano quelli tradizionali, faticano a maturarne di nuovi, con la parziale eccezione dei legami identitari centrati sui territori, sul localismo (in Italia, il leghismo guidato da Umberto Bossi). A trionfare nel “dopo 1989” è soprattutto un generico individualismo identitario, nutrito di diritti civili e di beni di consumo: ci si identifica con cause sempre più settoriali e frammentate, guadagna spazio la politicizzazione di identità collettive che rimandano a stili di vita o a minoranze culturali. I cittadini si trovano davanti partiti di centro-sinistra e di centro-destra che convergono sui valori della società e dell’economia neoliberale: partiti con un basso profilo ideologico-identitario, con orientamenti fluidi e che operano come “partiti piglia-tutto”, come macchine o cartelli elettorali; partiti sempre più autoreferenziali, poco presenti nella quotidianità della vita sociale, e sempre meno orientati e attrezzati per operare quali luoghi e riferimenti di socializzazione politica[7]; partiti che per raccogliere il consenso fanno crescentemente leva su campagne elettorali permanenti, aggiungendo al canale televisivo, in ultimo, la propaganda via internet, social media e influencer “invetrinati” all’uopo. E, non a caso, nel corso degli anni cresceranno a dismisura astensionismo, volatilità elettorale e propensione degli elettori verso il “nuovismo” in politica.

PANNELLO IV

La breccia che ha aperto il Muro di Berlino e che ha sgretolato quello che rappresentava il simbolo politico di un limite ha avuto conseguenze perduranti sulla politica, sulle identità politiche e sulla democrazia nell’Europa e nell’Italia dei decenni che portano a noi. È tuttavia tutt’ora difficile valutare in quali forma e misura tutto questo abbia avuto recezione e sistemazione nella consapevolezza e nelle memorie collettive. A questo riguardo, l’aspetto probabilmente più importante, e anche sorprendente, se vogliamo, è che al di là dell’attenzione ritualistica che suscita la ricorrenza del 1989, l’impressione è che, soprattutto in un Paese come l’Italia (patria del partito comunista più votato in tutta l’Europa occidentale dal secondo dopoguerra), la caduta del Muro non abbia avuto un’effettiva presa sulla memoria collettiva, né una rielaborazione nella cultura politica generale. D’altra parte, gli studi socio-politologici non si sono adeguatamente impegnati a mettere a fuoco il significato e l’eredità politico-culturali del 1989 per i regimi liberaldemocratici europei: la salienza dell’impatto politico-identitario del 1989 si è infatti eclissata per lo più dentro o dietro temi quali l’europeismo, la globalizzazione, l’economia dei mercati aperti o dei diritti umani e civili. Guidati da questi frames interpretativi, pubblici e accademici, si è finito per perdere di vista il fatto che quanto è accaduto attorno al 1989 ha influito profondamente sulla trasformazione della democrazia: per meglio dire, ha influito sulla trasformazione dell’immagine e delle pratiche della democrazia, delle idee, dei valori ideali e dei meccanismi relativi al funzionamento delle istituzioni implicate in tutto quell’universo politico a cui continuiamo a riferirci con il “nome di democrazia”. Il punto decisivo, che tende ancora a sfuggire, è che quel momento ha fortemente accelerato e alimentato, in modo particolare, la trasformazione della “cosa democrazia”.

L’ultimo capitolo di questa prolungata disattenzione/incomprensione riguardo al significato del 1989 si è manifestato nella crisi covidiana (2020-oggi, con particolare incisività in Italia): nel disorientamento di tutti e nella presa di consapevolezza di alcuni che ormai “la cosa” democrazia riflette poco “il nome” tramite cui la pensiamo, la immaginiamo e la viviamo. Verrebbe anche da aggiungere che, per un verso, sotto il regno del Covid qualche segmento minoritario della cultura politica europea è arrivato a “scoprire l’acqua calda”; per l’altro verso, la gran parte dell’opinione pubblica non si è tuttavia mostrata granché interessata a questa scoperta, liquidandola come una pedestre bufala o assurdo negazionismo del fatto che la democrazia esistente fosse rimasta sana a dispetto di tutti i mali che le si vorrebbe addossare. Ma anche questo è un segno del tempo e delle sue culture e identità politiche.

Tanta “disattenzione” rimanda anche a un altro diffuso fenomeno, che non è marginale nel quadro generale. Vale a dire: per una parte non irrisoria di quella cultura politica italiana che continua a “guardare a sinistra”, dopotutto, con il crollo del Muro di Berlino è stato travolto anche un mondo di valori e di ideali, senza che sia seguita un’elaborazione del “lutto ideologico”, bensì solo una drastica “rimozione della perdita”. Questo fenomeno si è verificato all’interno di uno scenario politico-culturale dove sugli occhi di molti “orfani” rimbalza lo sguardo altrui: lo sguardo beffardo e saputello di chi dice loro: “Ah, che abbaglio avete preso, compagni!”. Ma i “compagni” a cui, a partire dagli anni ’90 così ci si rivolge, erano invero spariti ben prima che i liberali fukuyamiani se ne accorgessero. Sia come sia, in questa storia a uscirne parecchio malmessa (e inaspettatamente per i miopi o i distratti), è proprio quella (sedicente) democrazia liberale che va per la maggiore nel nostro pezzo di mondo. Con l’esito che oggigiorno la democrazia liberale stessa risulta tutta calata e sfigurata nei fumi della confusione delle parole e della recrudescenza di ideologie otto-novecentesche in vesti sempre più irrigidite e superficiali, ma molto pop e molto social malgrado lo scolorimento dei panni.

PANNELLO V

Ma torniamo al 1989. Al crollo del Muro, alle sue macerie e all’implosione dell’impero URSS. A considerare la “bocciatura all’esame di democrazia” in cui incorre una buona parte degli Stati dell’ex blocco europeo-sovietico[8], dove a seguito del crollo del Muro di Berlino è stata “importata/esportata la democrazia”[9], è lecito concludere che le loro “rivoluzioni democratiche del 1989” e la loro attrazione verso l’Occidente liberaldemocratico siano state catalizzate essenzialmente dal desiderio di accedere ad un mondo ricco e promettente, fatto di sviluppo economico, di mercati redditizi, di benessere e beni privati, di stili di vita e di consumo “liberati” (e qui, di per sé, non c’è da eccepire più di tanto): è naturale che gli uomini siano sensibili a cose del genere. Tuttavia, c’è dell’altro che merita di essere rilevato e valutato. In quella parte di Europa già sovietica, vagliando le cose con più sobrio realismo[10], assai meno ambìte erano, con ogni probabilità, altre mete: un’equa e dignitosa distribuzione delle risorse o l’interesse per i beni comuni e pubblici, né erano tanto forti il desiderio e la volontà di appropriarsi dei valori della democrazia liberale, di seminare e coltivare libertà, pluralismo politico, emancipazione politica della cittadinanza e le correlate pratiche e soluzioni politico-istituzionali.

Su quest’ultimo lato della questione, nuoce alla qualità dell’analisi omettere quanto segue: buona parte delle responsabilità dell’“equivoco” e dell’“esito perverso” delle rivoluzioni democratiche del 1989 è da imputare proprio all’Occidente, alle sue classi dirigenti e alle associate campagne mediatiche (ora puramente propagandiste, ora facilone), come pure a una generalizzata incultura politica diffusa tra i comuni cittadini occidentali. Si potrebbe anche dire così: un po’ tutti si sono lasciati prendere la mano da superficiali entusiasmi per la “liberazione democratica” e, consapevolmente o meno, si sono mossi come mercanti (grandi e piccoli) e come “governatori del mondo” o come loro cortigiani e impiegati tutti al lavoro per piazzare le loro mercanzie e per rincorrere i loro interessi (piccoli o grandi) nel mare aperto di mercati nuovi e fertili. E, così operando, non si è andati tanto per il sottile nell’inserire e mescolare nei cataloghi dei beni di consumo da commerciare la libertà, la tolleranza, il pluralismo, i diritti, la tutela delle minoranze, la democrazia. Qualcuno l’ha fatto con la sincera convinzione di farlo a favore di tali valori; molti altri con più o meno lucido senso strumentale degli affari – economici, politici, ideologici, ossia di potere. Di fronte alla caduta del Muro ci si è mossi con troppa precipitosità e tra troppi equivoci o raggiri.

La storia procede anche così. Ma poi è restia a fare sconti. Il bicchiere è quasi sempre mezzo pieno e mezzo vuoto, a seconda di come si vedono le cose, a seconda delle condizioni socio-economico-culturali di ciascuno (individuo o gruppo). Morale: esportare o importare la democrazia è cosa molto, molto complicata[11].

Nel “mondo nuovo” del post-1989 la delusione, anno dopo anno, ha preso il sopravvento sull’entusiasmo inziale. Sia tra gli esportatori sia tra gli importatori di democrazia, la delusione si tinge di frustrazioni, disincanto, ripensamenti. Si apre così un “vaso di pandora”, dove ciascuno trova la “sua” democrazia. Sia tra coloro che sposano il “mondo nuovo” (si tratti di élite economico-sociali, di leadership politiche, di semplici cittadini); sia tra le frange dei nostalgici del socialismo o del comunismo. Il fatto è che dopo l’iniziale euforia, ancora una volta nella storia, ci si trova a dover a fare i conti con le “promesse non mantenute della democrazia” di cui parlava Bobbio: i nobili, generosi e “poetici” valori ideali vengono ridotti a malpartito dalle grette, taccagne e “prosaiche” pratiche concrete incorporate nelle istituzioni e nella vita quotidiana. In modo analogo è (stato) chiamato a fare i conti con le “promesse non mantenute” anche il socialismo reale, quello sovietico – si vorrebbe osservare. Sta di fatto, però, nell’applicare questa dura lex sed lex della politica, Bobbio (e molti con lui) usa due pesi e due misure nel giudicare le cose: mentre si evidenziano i guasti delle “democrazie reali” (o le “promesse non mantenute”) e ciò tuttavia induce rarissimamente a sconfessare la bontà ideale della democrazia, nel caso dei guasti del “socialismo reale”, le “promesse non mantenute” hanno invece portano in massa a sconfessare quasi automaticamente la bontà degli stessi ideali del socialismo.

Anche questo “doppiopesismo” che corre sul binario “piano ideale – piano reale”) altro non è che un sintomo di come e quanto l’etichetta “democrazia” sia davvero “elastica”; ma è anche un sintomo di come la democrazia contrassegni un “campo politico”[12]: un campo aperto dove si lotta per il potere[13]. In tale campo una parte della posta in gioco è che il regime reale che perde la partita contro un altro tipo di regime reale sia per ciò stesso qualificato anche sul piano ideale: dopotutto è non poco diffusa l’idea secondo cui chi vince, il più forte, ha comunque sempre ragione, ed è pertanto (necessariamente o implicitamente) anche moralmente ed idealmente accettabile e da difendere. Il perdente, invece, è il cattivo. E quando capita che il vincitore sia assalito dal dubbio che le cose non stiano esattamente (e sempre) così, o si provvede a rimuovere o ad edulcorare certe pagine di storia oppure ci si cimenta con pratiche (pseudo)risarcitorie o “espiative”. Nel frattempo, però, la storia è andata avanti e non si torna indietro rispetto alle sentenze rilasciate dai conflitti reali e dai giudizi ideali: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato… La vita, anche quella politica, procede sempre, kunderianamente, in diretta, come a teatro: non è, cioè, come girare un film dove si dice: “Questa no. Così non va. Rifacciamo la scena. Ciak 2… Ciak 3… Ciak, si rigira…”, fino a quando non si è soddisfatti. No, nella vita politica ogni scena resta, vale comunque e produce conseguenze.

PANNELLO VI

“Fine delle ideologie” è una tesi da tempo assai corrente nel discorso pubblico e nelle scienze sociali. Ma è una tesi che significa poco e niente. Riflette, piuttosto, una mancata comprensione di cosa siano le ideologie o “visioni del mondo” (che siano intese nella chiave di Marx o Gramsci oppure in quella di Max Weber o Karl Mannheim). Oltretutto, la tesi della fine delle ideologie rudimentalizza e fraintende i fenomeni a cui si riferivano Alain Touraine e Daniel Bell, i due principali sociologi che negli anni ’60 del Novecento hanno portato l’idea verso quel successo a cui è giunta infine ai nostri tempi: entrambi, infatti, si riferivano alla fine delle grandi ideologie politiche otto-novecentesche (comunismo, nazionalismo, liberalismo). Allo stesso modo, tale tesi fraintende anche l’immagine della società post-moderna delineata da François Lyotard e che mette in risalto la “fine delle grandi narrazioni”, ma non delle narrazioni tout-court, tanto che da alcuni decenni viviamo immersi nel paradigma narrativo, secondo il quale tutto e ogni cosa è “narrazione” (piccola o grande che sia). Sia detto per inciso: mythos (mito) sta proprio per racconto, narrazione.

È bene qui fermare un punto. La vita collettiva vive di ideologie o, se vogliamo, di narrazioni, di “immagini del mondo” le quali definiscono/costituiscono, rappresentano, raccontano e spiegano “il mondo” e i suoi risvolti, secondo schemi più o meno sistematici, elaborati o di grande respiro[14]. Per renderci conto della circostanza che “il mondo” (la vita collettiva e individuale) sia fatto di “volontà e rappresentazione” (al plurale), di poteri e di idee che interagiscono, convergono o divergono, e confliggono, non dovremmo aver bisogno di studiare Nietzsche, Schopenhauer o la teoria dei quanta (anche se studiare non farebbe male). Basterebbe soffermarsi su come procede la micro-quotidianità della vita sociale e collettiva o la “microfisica del potere”. Ma lasciamo da parte la filosofia (politica), la teoria (della conoscenza) e la vita quotidiana. Torniamo alle ideologie otto-novecentesche.

Nei decenni successivi alla seconda Guerra Mondiale, in effetti il nazionalismo tramonta, perlomeno in Europa, a vantaggio dell’internazionalismo, del cosmopolitismo, del globalismo, dell’europeismo. Con il 1989 tramonta anche il socialismo comunista. Sulla scena resiste il liberalismo, che prorompe in chiave di neoliberalismo affiancato al mercato, e che sovrappone liberismo e libertaniarismo, divenendo di fatto ideologia egemonica e senza alternative[15]. Ai nostri giorni, mentre sulla scena politica, culturale ed economica si riaffacciano nuove forme di nazionalismi o sovranismi e un neo-populismo tutti screditati dalla cultura dominante, il neoliberalismo si è fatto “senso comune”, nella misura in cui è riuscito a fare accettare ai più che le sue prassi e idee siano “naturali”, ovvero che “il mondo è come deve essere perché non può essere altrimenti”. In tal modo, il «senso comune dà forma ai calcoli della vita di tutti i giorni e appare naturale come l’aria che respiriamo»[16]. A questa altezza, l’ideologia incontra l’egemonia. E il neoliberalismo diventa ideologia egemonica – per riprendere una feconda idea a suo modo formulata da Gramsci. Corollario illuminante è che tutto ciò, paradossalmente, riguarda proprio quella cultura politica che proclama la “fine delle ideologie” e che non ammette di essere essa stessa un’ideologia o visione del mondo, fosse pure la migliore o l’unica accettabile: oggi riguarda, cioè, il neoliberalismo. E a questo punto emergono i problemi con la democrazia dei tempi correnti. In estrema sintesi, il tema può essere formulato nei termini seguenti[17].

PANNELLO VII

Con la delegittimazione, la debolezza o l’assenza di alternative ideologiche nel campo del “politicamente accettabile”[18], a soffrirne è la stessa democrazia: o, meglio, la qualità demo-politica delle odierne democrazie reali (neoliberali). Non a caso, oggi, le democrazie storiche[19] delle società occidentali non godono di buona salute: le istituzioni e i governi liberaldemocratici arrancano, non rispondono ai bisogni e alle aspettative di vaste parti della cittadinanza; faticano a formare governi rappresentativi coesi e maggioritari; i parlamenti, nel corso dell’ultimo trentennio circa, risultano sempre più svuotati dei poteri previsti per loro dalle costituzioni; le democrazie liberali si trincerano e si irrigidiscono crescentemente, rappresentandosi come “democrazie sotto assedio” e impegnate ad affrontare (una va l’altra viene) “crisi in sequenza”, e che sono presentate e vissute come “minacce all’ordine e ai valori democratici”, al punto che la difesa di tale ordine e di tali valori spinge le democrazie costituite a sospendere diritti costituzionali e principi liberali-democratici, ma anche ad alleggerire il paniere di diritti di cittadinanza che sembravano storicamente acquisti. In ultimo, la difesa dell’ordine costituito porta le democrazie reali a trasformarsi, “paradossalmente”, in democrazie militanti contro la democrazia, se non in “emergenziali dittature costituzionali”.

L’orizzonte di policrisi in cui ormai viviamo fa dell’emergenza e dell’eccezione la condizione permanente della nuova fisiologia delle democrazie costituite (una condizione peraltro forse non così nuova, bensì oggi solo un po’ più visibile o percepita rispetto al passato). Sotto questo profilo, populismi, sovranismi, fascismi, negazionismi, astensionismi elettorali ecc., sui quali cade lo stigma “politicamente invalidante” fatto valere dalla cultura egemonica e sui quali solitamente si scarica “colpa” o responsabilità della crisi democratica odierna, in realtà sono solo i sintomi di un profondo, variegato e perdurante “malessere democratico”[20] che investe le democrazie costituite, sono la febbre che segnala la malattia; o, forse, i sintomi di un malessere ancora più profondo ed epocale, provocato da una “mutazione del gene democrazia”. La causa, o almeno una causa saliente, del malessere, della malattia o della mutazione vanno invece rintracciate, da un lato, nel “fatto politico” che le forze e gli orientamenti ideologici di destra e sinistra faticano a rappresentare quelle opzioni alternative nel campo del pluralismo che nel lungo periodo, se non nel breve, mantengono vitale la democrazia, le sue trasformazioni politiche e il credo democratico; dall’altro, nel “fatto politico” che il linguaggio politico in termini di destra-sinistra non è più adeguato per cogliere la natura e le dinamiche dei processi socio-culturali e politici che attengono alla sfera del governo delle società e alla sfera del potere. Questo accade per la semplice ragione che per molti aspetti di primario rilievo le differenze tra destra e sinistra fanno ben poca differenza: a proposito del modello di società da perseguire, a proposito dei modelli di produzione e distribuzione delle risorse economiche, così come dei modelli di produzione e di distribuzione dello status sociale e di cittadinanza, dei modelli di produzione e di distribuzione delle libertà, dei diritti e dei doveri, le differenze tra destra e sinistra si sono tanto assottigliate da perdere rilevanza politica. Specie quando le forze politiche di destra o di sinistra cercano di diventare forze di governo durevoli. Con l’esito che una larga parte della cittadinanza si ritrova a non essere rappresentata nelle istituzioni.

Le democrazie reali hanno un debito con il “nome” che portano (demos-kratia). E ciò anche se “il nome della cosa”, storicamente, è collocato nella sfera ideale e valoriale, prima ancora che nelle sue pratiche effettive sociali ed istituzionali. È il “credo democratico”, sottolineato persino dal “realista” Schumpeter[21], che in fondo ha fatto la fortuna o ha dato manforte al successo storico delle stesse democrazie reali o empiriche, ovvero delle “poliarchie”, come ha suggerito di chiamarle Dahl per distinguerle dalle democrazie ideali[22]. Questo “credo democratico” per rimanere vitale ha bisogno dell’esistenza, nel campo del pluralismo politico, di “alternative che fanno differenza”. Gli ideali e i valori democratici sono essi stessi un interesse della democrazia, e si nutrono della “sfida tra le alternative fondamentali”, anche antagonistiche. La vita di una democrazia necessita, cioè, di sfidanti che tengano aperti gli orizzonti del futuro, che riescano a suscitare passioni politiche e a mantenere in vita quel processo (che chiamiamo democratico) fatto di confronto/scontro tra visioni alternative di società, di economia, tra prospettive differenti di futuro in competizione e lotta tra loro. Se il campo della politica democratica è tutto occupato da TINA (There Is No Alternative), allora il “mito democratico” (che in ultima istanza è la forza motrice della “democrazia reale”), gli ideali e la qualità di una democrazia si immiseriscono. Scatenano malessere politico. E prima o poi, cala il “sol dell’avvenire democratico”. Affonda la “cosa”, anche se sopravvive il “nome”. Anche se noi contemporanei non ce ne accorgiamo. E così la luce che vediamo è quella di una stella lontana che è già spenta e morta.

PANNELLO VIII

Con la caduta del Muro di Berlino si è imposto il “sogno neoliberale”. Ma questo sogno si è presto rivelato poco lieto per molte parti delle società democratiche occidentali (per non dire altrove): ha partorito quelle che, con imbarazzante ed equivoco neologismo, siamo ormai soliti chiamare postdemocrazie. Il mondo disincantato, iper-pragmatico, iper-utilitarista e mono-ideologico perseguito dal neoliberalismo, alla fine ci ha portato a demo-oligarchie, più o meno problematiche, paternaliste; ci ha portato a democrazie stanche e malinconiche, afflitte da aumento delle diseguaglianze economiche e delle marginalità sociali e culturali, dai limiti ambientali e sociali dello sviluppo; ci ha portato al prorompere del contrasto tra “mondo dell’alto” e “mondo del basso” o tra “inclusi” ed “esclusi”, tra centri e periferie; ci ha portato a “democrazie di emergenza permanente”, dove lo “stato di eccezione” si abbraccia alla “dittatura costituzionale”. Invero, la democrazia kelseniana è ancora di gran moda, ma troppi fenomeni e atteggiamenti sociali ci dicono che ormai è poco più di un abito di gala indossato per confondere o per rendere accettabile una politica di marca schmittiana che, se denudata, offenderebbe l’imperante cultura democraticistica “politicamente corretta” che piace ed è comoda a tanti.

Se la democrazia vuole restare the only game in the town e allo stesso tempo dare risposte dignitose ai problemi che caratterizzano le nostre società e la “convivenza tra diversi”, forse è il caso di prendere sul serio la sfida delle sfide, ossia la sfida della vitalità democratica: mettersi alla ricerca di alternative allo status quo e delle energie intellettuali e politiche, tra “teoria e prassi”. Forse è il caso di prendere sul serio il fatto che abbiamo bisogno di disporre di pretendenti legittimi (istanze e forze sociali-politiche) allo scettro democratico, e non omologabili tra loro. Alla fine, volens nolens, il démodé e urticante Carl Schmitt ci è di aiuto a comprendere anche quella “cosa”che porta il “nome” di democrazia. Con buona pace dei suoi detrattori liberaldemocratici e delle tante anime belle del nostro tempo.

E qui termina il nostro piccolo viaggio nel “mondo nuovo” ereditato dalla festa per il crollo del Muro che ha soppiantato la festa per la presa della Bastiglia. Con una lezione che può confondere, disturbare o irritare i più: al gran salone della democrazia, Locke troneggia come officiante, è la stella di riguardo, blandita e ossequiata. Bene. Come negargli meriti ed onori? Ma nel salone della festa, Rousseau è il convitato di pietra, che tutti conoscono, anche quando non lo riconoscono, un convitato che inquieta e che dà da pensare. Ebbene, la festa democratica rischia davvero di spengersi ogni giorno sempre di più, quasi impercettibilmente nel volteggiare di cicisbei incipriati e di moine ingioiellate, magari sotto le note del “politicamente corretto”. Questo è il nostro scenario. Se non si vuole o non si sa comprendere che senza Rousseau lo stesso Locke immalinconisce e si eclissa. E la democrazia si svuota della sua natura politica: diventa solo amministrazione di uomini-oggetto. Il resto, chiedo scusa, è bla-bla.


NOTE
[1] Vedi G. Nevola (a cura di), Una patria per gli Italiani? La questione nazionale oggi tra storia, cultura e politica, Carocci, 2003.
[2] Vedi G. Nevola, Democrazia Costituzione Identità. Prospettive e limiti dell’integrazione europea, Liviana-De Agostini, 2007.
[3] Vedi S. Strange, Chi governa l’economia mondiale?, Il Mulino, 1996; G. Corm, Il nuovo governo del mondo, Vita e Pensiero, 2013.
[4] Vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022.
[5] Per un’analisi critica e non convenzionale vedi G. Nevola, Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica, Carocci, 2022.
[6] Vedi B. Manin, La democrazia dei moderni, Anabasi, 1992, parte II, cap.IV: “La democrazia del pubblico”; con riferimento all’Italia: G. Nevola, Quale patria per gli Italiani? Dalla “repubblica dei partiti” alla pedagogia civico-nazionale di Ciampi, in Id. (a cura di), Una patria per gli Italiani?, Carocci, 2003.
[7] Sul PCI e la cultura politica “rossa” vedi M. Caciagli, Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica, Carocci, 2007.
[8] Inclusi i Länder dell’ex Germania dell’Est confluiti nella Germania unita. Per il resto le cronache quotidiane tengono in evidenza casi come quelli dell’Ungheria o della Polonia, solo per citare gli esempi più rilevanti.
[9] Vedi gli “indici di democrazia” nel mondo che da anni vengono stilati da numerosi think tank, organizzazioni indipendenti, studiosi di scienza politica occidentali, ad esempio i numerosi reports prodotti negli anni dalla Bertelsmann Stiftung, dall’Economist Index of Democracydalla Freedom House, dall’Eurobarometro. Un’analisi politologica sistematica dei dati sulle tendenze temporali è offerta da L. Diamond, Facing up to the Democratic Recession, in “Journal of Democracy, 1, 2015. Qui lasciamo da parte la questione se la definizione e gli indicatori utilizzati siano esaurienti e rappresentativi delle molteplici dimensioni e criteri che la teoria politica e democratica hanno messo a punto secondo tradizioni culturali e prospettive analitiche molteplici, talora convergenti e talora divergenti. E lasciamo pure da parte la qualità della base empirica che sorregge le misurazioni e le valutazioni tanto dei regimi “bocciati” dell’Europa ex sovietica, quanto dei regimi dell’Europa occidentale o tout-court occidentali. Ci limitiamo a ricordare come la letteratura e le misurazioni correnti siano andati via via sottolineando, dopo la stagione di euforia democratica provocata del crollo del Muro, la crescente “involuzione” anti-liberaldemocratica nell’Europa post-sovietica. Per una differente analisi e chiave di lettura vedi il mio Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022.
[10] E cioè tarando l’entusiasmo e la retorica con cui si sono a lungo letti gli eventi e le società in rifacimento in un’epoca che il sociologo Lepenies definì “inaudita”. Vedi W. Lepenies, Conseguenze di un evento inaudito, il Mulino, 1993.
[11] Lo dimostrano, con solidi argomenti, anche le analisi di un fervido sostenitore del trionfo della democrazia liberale eretta a destino universale. Vedi F. Fukuyama, Esportare la democrazia, Lindau, 2005.
[12] La nozione è mutuata da Pierre Bourdieu.
[13] Per approfondimenti vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022.
[14] Vedi ad esempio T. A. van Dijk, Ideologie, Carocci, 2004.
[15] Di questo fenomeno ho trattato nell’ambito del mio Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica, in “Sinistrainrete”, 29 gennaio 2023 e (suddiviso in quattro parti) pubblicato anche in “Tempi difficili”.
[16] S. Hall, The Road to Renewal, Verso, 1988, p. 8.
[17] Per approfondimenti rimando a G. Nevola, Socialismo e democrazia? Mito della Rivoluzione d’Ottobre e disincanto democratico, in “Rivista di Politica”, 4, 2018; Id., Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022; relativamente al caso italiano: Id., Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica, Carocci, 2022.
[18] Quale, in una qualche misura, era ad esempio progressivamente diventata l’“alternativa socialista/comunista”.
[19] Ovvero le “democrazie consolidate”, come vengono definite dalla scienza politica convenzionale.
[20] Al riguardo rimando a G. Nevola, Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida dell’“incantesimo democratico”, in “Il Politico”, 1, 2007.
[21] Vedi J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas, 1994 (ed. or. 1942).
[22] Vedi R.A. Dahl, Who Governs, Yale University Press, 1961; Id., Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, Angeli, 1981 (ed. or. 1971).

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COMMENTO

Tutto il resto è da interpretare attentamente ma in questa nuova chiave ‘neo-marxiana’, aggiornata e depurata da aprioristici e acritici revival di antiquarie memorie. Pertanto, e ancor più, senza farsi abbagliare dagli ideologismi desueti che la cosiddetta geopolitica, del resto di inevitabile marca atlantista e anglosassone – proprio per la sua intrinseca struttura logico-formale e per i suoi propri acritici postulati neo-liberisti e perfino quanto viene più o meno dichiaratamente proposta in contrapposizione ai suoi più appropriati e rimarcati posizionamenti ideologici, al fine di celare la realtà brutale delle cose. E dunque le economicistiche motivazioni reali dei conflitti internazionali. Non di rado proprio a prescindere dalle considerazioni territoriali: appunto – ribadiamo – una geopolitica a senso unico, unipolare ed auto-referenziale per chi dà le carte del gioco. Così come si è sempre affermato il dogma atlantistico. E infatti:

Dunque ci si avvia dal capitalismo internazionale ad impianto oligarchico monopolista e monocratico a più estremo vertice di matrice anglosassone al capitalismo internazionale ad impianto oligarchico oligopolista e pluralista ma con le più diverse e perfino contrastanti realtà di regimi statali interni. Qual’è o sarà infatti la risultante sintesi – nel comune gergo politico occidentale – più ‘democratica’? O forse si tratta, questa, di una domanda mal posta davanti ad una realtà economica che corrisponde a imperativi categorici ben distanti dalla stessa? A noi è stato insegnato che gli indicatori di una democrazia liberale sono il pluralismo e la divisione e il decentramento dei poteri, ma il lobbismo e le tendenze agli accentramenti monopolistici dell’economia liberista hanno ampiamente vanificato quella divisione dei poteri e più che mai si rivelano nuove forme con cui la strutturazione economica delle società risulta ben più determinante nel definire la sua organizzazione politico-giuridica.

In definitiva il decentramento dei poteri veniva e viene ancora applicato esclusivamente alla forma giuridica della democrazia elettiva liberale, che il liberismo economico e il suo monetarismo accentratore di potere hanno sempre più dimostrato di esautorare e vanificare. Mentre la più funzionale, ma ‘autarchica’ (anti-democratica?) creazione di capitalismi statuali con oligarchi aventi causa e controllati dal potere politico hanno via via sparigliato il gioco. E allora il capitalismo di anglosassone origine, politicamente pluralista ma economicamente a tendenza monocentrica, è stato sempre più costretto ad uscire allo scoperto nella sua più originaria qualificazione coloniale politico-militare. E di conseguenza il neocolonialismo economico-finanziario ha rivelato la sua natura evolutiva e dipendente da quell’altro. La democrazia politica all’interno di questa contrapposizione si mostra sempre più come una variabile dipendente, a mio avviso e in quanto consenso controllato della base popolare più generalizzata rivela la sua aleatorietà ontologica: la sempre più manipolata e dunque falsata democrazia elettorale fallisce insomma davanti ad una società economicamente stratificata e piramidale quanto più la base del consenso si appiattisca verso il basso e il vertice si trovi esposto sempre più, come un isolato cocuzzolo, a divenire una cittadella fortificata ma isolata dal resto della società stessa e dunque concretamente ben più esposta ai sommovimenti civili ed internazionali. È quello che sta accadendo? E dunque destabilizzazione statuali continue e guerre su guerre ad infinitum in ogni conseguente lotta per il dominio internazionale ed interno! Pur tuttavia:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/03/30/brasile-e-cina-perche-laccordo-monetario-che-estromette-il-dollaro-puo-sconvolgere-il-mondo/7114733/

Pertanto la guerra come unica prassi di salvaguardia, come soluzione stabilizzata ed efficace. Ma accanto ad essa, come un inevitabile fantasmatico destino, il graduale auto-strangolamento sociale ed economico di un modello sociale i cui beneficiari a tutti i livelli continuano irresponsabilmente a danzare nei saloni di un Titanic il cui destino è oramai segnato? Nel frattempo questa soluzione continua a rivelarsi il business dei soliti, indisturbati noti, associati a quei vertici di potere! Però se nel mentre vi accedono alla pari o meno, sparigliando il gioco, anche soggetti di storicamente colonizzata provenienza? Fino a quando l’unica geopolitica legittimabile come prevalente sarà quella della prepotenza del più forte? Specie se via via risulti forte non in maniera assoluta sul piano politico-militare e sempre meno su quello economico per il sorpasso di più potenti attori internazionali. A non dire di quello diplomatico, ed etico in stretta connessione di credibilità, oramai ridotto al lumicino se considerato al di fuori della sua sempre più ristretta area di influenza, d’alleanze e dipendenze strategiche. Una terza guerra mondiale condotta inevitabilmente anche col ricorso ad armi atomiche e dunque negli esiti come un estremo bagno di sangue ‘purificatore’? Buona fortuna a tutti noi! Nel frattempo continuiamo pure a danzare sul nostro Titanic.

(29 marzo 2023, aggiornato al 15 maggio 2024)

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